Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  aprile 03 Giovedì calendario

Onnipresenti, incalcolabili, non risarcibili Sono i rischi di questa modernità. Corriere della Sera 3 aprile 2008

Onnipresenti, incalcolabili, non risarcibili Sono i rischi di questa modernità. Corriere della Sera 3 aprile 2008. Nel 1861, durante il travaglio che precedette la nascita della società moderna, il poeta francese Charles Baudelaire scriveva nella prefazione dei «Fiori del male»: «Parigi è il centro e lo splendore della stupidità universale. Chi avrebbe mai creduto che la Francia si sarebbe lanciata con tanto ardore sulla strada del progresso?» Quella che Baudelaire chiama «stupidità universale» altro non è che la fiducia cieca della modernità in se stessa, nella sua inarrestabile marcia trionfale: il dibattito razionale sbaraglia credenze e superstizioni, l’essere umano diventa la misura di ogni cosa e, con la costante espansione della tecnologia moderna, nella sua infinita plasticità, tutto ciò che è accidentale può essere scartato. Sotto il profilo storico, quest’infinito cambiamento appare come una transizione dall’oscurità alla luce, come teoria implicita del processo di evoluzione morale che chiamiamo «progresso». La scienza, che scalza Dio e la religione dal centro, si articola su una «mitologia» tutta propria, capace di catturare l’antica distinzione tra il sacro e il profano come distinzione tra opinione laica e razionalità esperta: questa diventa la fonte delle visioni salvifiche secolari-religiose. Una domanda si affaccia, tra tante altre: è possibile immaginare un potere che sia capace di infrangere questi idoli della società capitalistica moderna? I contro-attori e le contro-visioni annunciate dall’autodeterminazione della modernità sono stati man mano detronizzati: proletariato, comunismo, socialismo, nazionalismo, la nuova intellighenzia o la forza muta del dibattito pubblico. Non hanno resistito al test della storia, come dimostra il secolo ventesimo. Se esiste una qualche forza contrapposta che potrebbe trasformare questa metafisica immanente della modernità, questa è, a mio avviso, il potere della modernità stessa. La fiducia che la società moderna ripone nella modernizzazione lineare contraddice l’auto-disincanto della modernità, la sua capacità di avviare mutamenti epocali, di intraprendere auto-trasformazioni. Contrariamente alle teorie sociali di Comte, Marx, Durkheim e Weber, passando per Horkheimer, Adorno, Parsone e Bourdieu, fino a Foucault, Luhmann e Habermas, sono convinto che il sistema della società industriale, autonomo e in apparenza indipendente, abbia trasgredito la sua logica e superato i suoi confini, avviando un processo di auto-dissolvimento. Siamo testimoni di una dialettica della modernità: la continuità dei principi e la discontinuità delle istituzioni fondamentali della modernità dello Stato-nazione. Questa svolta radicale caratterizza la fase attuale in cui la modernizzazione si va facendo riflessiva. Ci occorrono in sociologia dei modelli di «cambiamento discontinuo», di differenziazione interna della modernità. Poiché la modernizzazione oggi si insinua nelle istituzioni fondamentali (sociali, politiche e culturali) della società industriale dello Stato-nazione, essa contribuisce a sfaldarle per dare vita a nuovi potenziali, in opposizione alla modernità industriale: questo si riscontra nella politica sottostatale (e autoritaria) nei riguardi dell’ambiente; dall’emergere di culture e movimenti di partecipazione; da una profonda critica non solo del capitalismo neoliberale, ma anche delle pratiche organizzative gerarchiche della sinistra tradizionale; e – infine – dalla nascita di una Nuova Teoria critica. In questo modo, il processo di modernizzazione riflessiva ci allontana dalla società industriale nazionale verso una società globale del rischio, carica di ambiguità tuttora indeterminate. Respingo l’idea che questo mutamento epocale corrisponda a uno spostamento dal moderno al post-moderno, come si sosteneva due decenni or sono. Per me queste sono tutte società capitalistiche «moderne». Anzi, ancor più moderne e più capitalistiche. Pertanto non si riscontra un movimento dal moderno al suo opposto, bensì l’elaborazione di una seconda modernità, la cui principale caratteristica è il rischio. Rischio non significa catastrofe, ma previsione della catastrofe, un pericolo potenziale. La società del rischio significa che il rischio è diventato la fase attuale della modernità. A questo punto vorrei distinguere tra la società industriale e la società del rischio, affermando che la trasformazione dalla prima nella seconda ha preso avvio sul finire degli anni Sessanta. La società del rischio è caratterizzata da incertezze confezionate, ovvero una gamma di nuovi rischi – per esempio, i pericoli ambientali o la previsione di tracolli finanziari – che sono gli effetti collaterali involontari dello sviluppo tecnologico ed economico. Queste incertezze confezionate scaturiscono dal progresso scientifico e tecnologico come pure dalle riforme neoliberali, che dovrebbero contribuire a risolvere i problemi, non a crearli. Storicamente, identifico due tipi di spostamento, dal pericolo al rischio e dal rischio al pericolo, come incertezza confezionata. Definisco il pericolo come qualcosa creato dalla natura, mentre il rischio è creato dall’uomo: il pericolo non prevede decisioni, ma il rischio sì (e anche la modernizzazione). Nella modernità radicalizzata i nuovi rischi pertanto sono incertezze e pericoli confezionati o fabbricati, perché la gamma delle catastrofi potenziali e delle incertezze cresce con il progresso scientifico e tecnologico, con la globalizzazione economica e l’industrializzazione (più automobili e più ricchezza causano anche più problemi all’ambiente). Ovvio, ci sono sempre state ripercussioni e conseguenze negative, ma nella prima modernità questi effetti collaterali erano immediatamente visibili, mentre i nuovi rischi tendono a sfuggire ai nostri sensi. Ciò significa che è possibile conoscerli solo attraverso test scientifici – e spesso sono latenti. La loro latenza è il motivo per cui i nuovi rischi non possono essere pienamente affrontati dalla scienza, anche se sono fino a un certo punto riconoscibili proprio grazie a questa. Di conseguenza, le tecnologie tradizionali della valutazione, gestione e assicurazione del rischio non possono più funzionare efficacemente. In altre parole, i nuovi rischi sono incertezze e pericoli fabbricati. La modernità deve affrontare il proprio potenziale distruttivo dello sviluppo sociale e tecnologico senza aver potuto elaborare risposte adeguate. E ancora: non è la post-modernità, bensì la modernità radicalizzata, a produrre la società globale del rischio. In una società globale del rischio, il timore globale di pericoli e catastrofi scuote le fondamenta delle società moderne. Tali rischi globali hanno in comune tre tratti caratteristici: 1. delocalizzazione: le loro cause e conseguenze non si limitano a un’unica località o area geografica: in principio, essi sono onnipresenti; 2. incalcolabilità: le loro conseguenze sono in principio incalcolabili; in fondo, essi comportano rischi «ipotetici» basati su divergenze normative e l’inconoscibile scientificamente generato; 3. irrisarcibilità: sebbene l’ideale di sicurezza della prima modernità non escludeva i danni (anche di grande entità), questi erano considerati risarcibili, in modo tale che il loro impatto distruttivo potesse essere indennizzato (con denaro, ecc...) Ma se il cambiamento climatico è irrevocabile, se la genetica consente interventi irreversibili sulla vita umana, se i gruppi terroristici sono già in possesso di armi di distruzioni di massa, allora è troppo tardi. Dando per scontata la nuova caratteristica di queste «minacce all’umanità», sostiene François Ewald (2002), la logica del risarcimento viene meno ed è sostituita dal principio della precauzione grazie alla prevenzione. La delocalizzazione dei rischi si verifica su tre livelli: a) spaziale: i nuovi rischi (per esempio, il cambiamento del clima e gli scossoni dei mercati azionari) si diffondono oltre i confini nazionali e addirittura da un continente all’altro; b) temporale: i nuovi rischi hanno un lungo periodo di latenza (per esempio, le scorie nucleari), e pertanto il loro effetto futuro non può essere determinato e regolamentato pienamente; inoltre, la conoscenza e l’inconoscibile stanno mutando, di modo che la domanda su chi verrà colpito resta aperta, dal punto di vista temporale, e soggetta a controversie; c) sociale: poiché i nuovi rischi sono il risultato di processi complessi basati su lunghe catene di effetti, le cause e gli effetti non possono essere identificati con sufficiente precisione. E qui vedi i problemi ambientali. Ulrich Beck