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 2008  aprile 03 Giovedì calendario

L’inarrestabile corsa dell’oro. Corriere della Sera 3 aprile 2008. «Con l’economia ferma, tassi e dollaro che scendono, il petrolio che vola e i mercati finanziari prigionieri della paura, dove credete che la gente abbia voglia di mettere i soldi?»

L’inarrestabile corsa dell’oro. Corriere della Sera 3 aprile 2008. «Con l’economia ferma, tassi e dollaro che scendono, il petrolio che vola e i mercati finanziari prigionieri della paura, dove credete che la gente abbia voglia di mettere i soldi?». Per ovvia che sia, la domanda (retorica) che si pone Peter Hillyard, responsabile di settore della Anz Investment bank, racconta bene l’inarrestabile corsa dell’oro. Nel 2007 il prezzo di un’oncia è cresciuto del 32% e nei primi tre mesi di quest’anno, nonostante le forti oscillazioni in su e giù, ha aggiunto un altro 15-20%. Ormai anche la soglia «psicologica» dei 1.000 dollari è stata violata: una prima assoluta, datata 13 marzo 2008. E sulla stessa linea viaggiano sia il platino, arrivato a 2.100 dollari per oncia, sia l’argento, che ha superato i 20 dollari. Poi, nei giorni scorsi, è andata in scena una brusca correzione, fino alla chiusura di ieri attorno ai 900 dollari. Ma, in prospettiva, i prezzi sono destinati solo a salire. Ad ogni slittamento del dollaro cresce il valore di tutto quello che sui mercati viene scambiato nella valuta americana. «Non c’è via d’uscita – ammette Robin Bahr, metal analyst della Ubs Investment Bank ”. Tantopiù che la crisi finanziaria accentua giorno dopo giorno la propensione di investitori e piccoli risparmiatori a liberarsi dei loro asset di carta per acquistare attività "solide"». L’oro, insomma, è tornato a essere il bene rifugio per eccellenza, la scialuppa cui aggrapparsi nel pieno della tempesta. Non è la prima volta, ovviamente. Ma per trovare una febbre di questa intensità bisogna tornare indietro di quasi 30 anni, al 1980, quando l’invasione sovietica in Afghanistan e gli effetti della rivoluzione khomeinista in Iran mandarono alle stelle i prezzi petroliferi, provocando un’impennata dell’inflazione e il ristagno economico in tutto l’Occidente. In quel mese di gennaio l’oro arrivò a 850 dollari per oncia: un livello che, secondo i calcoli della società specializzata Gfms Limited, a valori "depurati" dall’inflazione equivale a 2.120 dollari di oggi. Fra il 1980 e questo 2008 c’è però una grande differenza. Anche quando l’economia americana riprenderà tono (e la tempesta che sta scuotendo i mercati sarà solo un ricordo), i metalli preziosi non rientreranno affatto nei ranghi. A gonfiarne i prezzi è il progressivo, inarrestabile spostamento dell’asse economico mondiale verso Oriente. Soprattutto in Cina e India, due giganti con una popolazione rispettivamente di 1,3 e 1,1 miliardi di persone, dove più cresce il reddito pro capite, più s’ingrossano le file della nuova middle class creata dal boom, e più aumenta la voglia d’oro. Non solo come bene d’investimento, ma soprattutto come rappresentazione (anche estetica) di valori radicati nella cultura popolare dei due Paesi. L’oro simbolo di prosperità e buona fortuna, in Cina. L’oro come emanazione di luce divina nell’India induista. Non si acquistano dunque contratti futures scambiati sui mercati, ma orologi, anelli, collane. Non si tengono d’occhio le quotazioni sulle Borse merci internazionali ma i cartellini dei prezzi nelle gioiellerie locali. Già oggi l’India è di gran lunga il maggiore «consumatore» del mondo, con oltre 720 tonnellate nel 2007. E la Camera di Commercio nazionale stima un incremento del 38% entro il 2010, a 980 tonnellate, per arrivare a 1.152 tonnellate nel 2015, il 60% più di ora. Ma a titolo d’investimento l’anno scorso sono state acquistate solo 215 tonnellate, mentre la bellezza di 558 tonnellate sono finite in gioielli, parte dei quali (poco più di 50 tonnellate) ottenuti riutilizzando oggetti già esistenti. In Cina la tendenza è analoga. Quasi irrilevante fino a una decina d’anni fa, il «consumo » di gioielli d’oro ha raggiunto le 245 tonnellate nel 2006 e le 302 tonnellate nel 2007, con stime superiori alle 400 tonnellate per il 2010. Gli «investimenti» aurei, invece (appena 24 tonnellate nel 2007), scontano ancora il divieto che il Grande Timoniere Mao Zedong aveva imposto fin dal 1949, e che è caduto solo un paio d’anni fa. Una liberalizzazione che, nel 2005, ha portato subito all’apertura della prima Borsa per gli scambi sui metalli preziosi a Shanghai, poi seguita da altre metropoli cinesi. Tanto che ormai tutte le principali banche, dalla China Bank alla Industrial and Commercial Bank, dalla Construction Bank fino alla China Agricultural Bank, sono autorizzate a gestire contratti basati sui metalli preziosi. Ma, secondo tutti gli osservatori, un grosso contributo all’aumento della «domanda» d’oro proveniente dall’ex Impero Celeste verrà anche dalla stessa banca centrale cinese, le cui riserve (per un valore totale pari a 1400 miliardi di dollari) solo 30 anni fa erano costituite, appunto, da oro per il 95%, mentre ora quella quota è scesa ad appena l’1,5%. Il resto è fatto da dollari (il 70% circa) e da altre valute estere. In volumi, si tratta di circa 600 tonnellate, mentre, per esempio, la Federal Reserve americana ha in cassaforte più o meno 8.500 tonnellate. Così, se la banca centrale cinese dovesse alzare la soglia al 3-5%, che corrisponde più o meno agli standard adottati dalle banche centrali di altri Paesi, si assisterebbe a un inevitabile aumento dei prezzi sui mercati internazionali. «La storia insegna che l’oro ha sempre scandito l’ascesa delle grandi potenze economiche del pianeta - spiega un osservatore di lungo corso come Richard Russell, direttore delle Dow Theory Letters -. Questo vale anche oggi, in un mondo globalizzato in cui la Cina vuole ritagliarsi un ruolo egemone. Non c’è dunque da sorprendersi se l’oro sta via via abbandonando gli Usa e l’Europa per trasferirsi in Asia». Giancarlo Radice