varie, 2 aprile 2008
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Quaranta Ciro
• Grottaglie (Taranto) 1955. Fotografo. Figlio di contadini, ex operaio alla Belleli di Taranto dove ha lavorato da adolescente per trent’anni. Studia da perito elettrotecnico alle scuole serali e, convinto da un amico, compra la prima macchina fotografica, «una Mamiya agile come un carro armato». Inizia a scattare immagini di lavoratori. Assunto alla Belleli come elettricista e carpentiere, gira in bici e scatta. Il suo mito è Henri Cartier-Bresson, uno dei padri del fotogiornalismo, morto nel 2004. Uno stage nel ”90 con René Burri, il fotografo di Fidel Castro e Che Guevara. La sua prima mostra sui «volti del lavoro» nell’aprile 2008 museo nazionale archeologico di Taranto. «Non lo sapeva neppure, ma era il fotografo-operaio della classe operaia. Nello zainetto portava il giravite e la reflex. ”Scusa, collega, un ritratto?”. [...] ”Gli operai? Non sono né di destra né di sinistra. Sono operai”. Quando gli chiedono da che parte sta, Ciro dimentica di essere timido. Aveva 16 anni quandò entrò in fabbrica come apprendista, 46 appena quando andò in pensione malvolentieri dopo avere visto affondare nel fallimento l’azienda e il suo lavoro (’Mi vergognai un po’ ad andare via così giovane”). [...] Con una piccola Olympus Om1 ha scattato diecimila foto: più della metà alle facce del lavoro. Metalmeccanici, tubisti, cavapietre, muratori. Ex operaio e fotografo degli operai, Ciro racconta che un giorno, nella Belleli di Taranto, la sua vecchia azienda, incontrò un gruppo di saldatori in pausa alla macchinetta del caffè: ”Mai visti prima. Mi avvicino e dico: ”Voglio farvi una foto’. Mi guardano: ”E tu chi sei?”. ”Voglio farvi una foto ricordo’. Si misero in posa. Uno lo chiamavano l’Indiano. Avevano volti bellissimi”. Di foto, nella Belleli, Ciro ne scattò duemila. ”Il capo del personale mi autorizzò per due mesi. Mi dimenticai le date...”. Figlio di contadino, sposato, due figlie, Ciro Quaranta è uno strano tipo che ha lavorato per quasi trent’anni con la reflex accanto. Quando poteva, scattava. Nel suo grande archivio del ”lavoro manuale” qualcosa manca. ”Una bella miniera, quella non c’è. E mancano i metalmeccanici del centro siderurgico Ilva di Taranto. Vorrei entrarci e scattare. Ho chiesto ai sindacati. Mi hanno detto che non si può”. La storia è semplice e curiosa insieme. Il fotografo della classe operaia vive a Grottaglie, la città della ceramica. Nel 1972 comincia a lavorare. Fa domanda alla Belleli, un’azienda metalmeccanica mantovana con uno stabilimento importante a Taranto. Preso: apprendista. ”Il primo giorno fu un trauma. Rimasi senza parole a vedere il capannone immenso. Grande frastuono. Per tre giorni fui praticamente sordo. Sentivo solo i rumori della fabbrica”. Dodici giorni di prova, otto mesi come carpentiere, poi elettricista. Ciro vuole studiare. Prende il diploma di perito elettrotecnico alle scuole serali dove un compagno di classe quasi lo costringe a comprare una macchina fotografica. ”Donato, il mio amico, mi trasmise la passione. La prima reflex fu una Mamiya, agile come un carro armato. Poi la Olympus. Eccola qua, la porto sempre con me”. A scuola si parla di fotografia soprattutto col professore di italiano, appassionato anche lui. ”Gli amici mi invogliavano: ”Ciro, parla, parla’. Così saltavamo la lezione”. Le prime foto a Grottaglie. ”Ora che ci penso, i primi scatti furono il canestraio e il ciabattino. Mi piace la creatività del lavoro manuale, la bravura con cui un artigiano fa di un pugno di argilla un vaso. E i saldatori? Sono degli artisti. Io li guardavo, alla Belleli. Formidabili”. Nell’82 il diploma. La Belleli cresce. Costruisce caldaie, centrali elettriche, poi il business delle piattaforme per l’estrazione del petrolio. Ciro si muove in bicicletta negli stabilimenti e corre dovunque serva un elettricista. Quando può, sfila dal marsupio la reflex. ”Posso fare un ritratto?”. I colleghi lo aiutano. L’azienda va in declino. Nel 1998 la Belleli mette in mare ”Ursa”, 31mila tonnellate, 55 metri di altezza, la più grande piattaforma offshore del mondo: per Ciro è una festa. Costruita per il Golfo del Messico, l’’Ursa” è l’ultimo grande appalto della Belleli. L’ultimo botto. L’azienda chiude nello stesso anno. Tutti a casa, in cassa integrazione. Poi, chi può, in pensione. Quaranta non potrebbe se non arrivasse l’abbuono contribuitivo per l’esposizione all’amianto. Dieci anni. Lascia il giravite, non la reflex. Così continua a raccontare le facce della classe operaia. Entra alla Bosh, alla Getrag, nello stabilimento Alenia di Grottaglie in cui si costruiscono le fusoliere del Boeing: camici bianchi, niente grasso e fumo. Ma sempre operai. Alenia e la Provincia di Taranto hanno voluto ”adottarlo”, Ciro, sponsorizzando una mostra sui ”volti del lavoro” [...] La mattina Ciro aiuta la sorella Immacolata: ha uno studio fotografico. ”Faccio qualche foto ai matrimoni, per lei. Una condanna”. Poteva vivere di foto. All’agenzia Grazia Neri le sue foto piacquero. Un giorno gli proposero di partecipare al World Press Photo, il più importante concorso di fotogiornalismo. ”Dissi no. Non mi sentivo pronto». Non lavora su commissione. ”Dovrei fare le foto che vogliono gli altri. Non mi piace”. [...]» (Tonio Attino, ”La Stampa” 2/4/2008).