La Repubblica 1 aprile 2008, FEDERICO RAMPINI, 1 aprile 2008
La dissidenza olimpica. La Repubblica 1 aprile 2008. Per essersi impadronita di un simbolo universale come le Olimpiadi la Cina corre un rischio formidabile
La dissidenza olimpica. La Repubblica 1 aprile 2008. Per essersi impadronita di un simbolo universale come le Olimpiadi la Cina corre un rischio formidabile. un rischio che i suoi dirigenti non hanno saputo calcolare. Dal massacro di Piazza Tienanmen nell´89, mai il regime era apparso così vulnerabile. Pechino voleva usare l´atmosfera epica e corale dei Giochi per celebrare la propria ascesa nel cielo delle nazioni rispettabili. Rischia di accadere il contrario. I simboli a volte vengono rovesciati. Dopo il popolo tibetano altre opposizioni interne che il regime ha soffocato possono cercare nelle Olimpiadi l´occasione unica per ritrovare la voce. E tutte le paure o le critiche che la strepitosa ascesa della Cina ha suscitato fuori dalle sue frontiere trovano nell´appuntamento sportivo di agosto un catalizzatore, l´opportunità di esprimersi su un palcoscenico mondiale. Ancora prima della cerimonia inaugurale il viaggio planetario della torcia olimpica è già un percorso a ostacoli: dopo le contestazioni alla partenza in Grecia le tappe più attese sono Londra, Parigi, San Francisco e New Delhi. S´ingrossano movimenti di protesta per istruire un processo pubblico a tutte le colpe del regime cinese: Tibet, Darfur, Birmania, diritti umani. Era dai tempi dei Giochi di Berlino del 1936, quando la torcia dovette essere protetta dalla polizia al passaggio nella Cecoslovacchia minacciata da Hitler, che il percorso della fiamma non scatenava emozioni così estreme. Come si è potuti arrivare a questo punto? Nessuno dei leader cinesi ebbe la preveggenza di proiettarsi questo film dell´orrore, nell´atmosfera festosa del 2001. Sette anni fa Pechino vinse la gara per l´assegnazione ai Giochi. Sette anni che sembrano un´eternità. La Repubblica popolare stava appena affacciandosi nell´economia globale. Era meno sicura di sé. E molto meno temuta. Solo alla fine del 2001 entrò nel Wto, l´Organizzazione del commercio mondiale. In un mondo molto diverso. Un pezzo di nomenklatura comunista preannunciava catastrofi: il Wto portava la Cina verso una ri-colonizzazione, la sua grossa ma fragile economia sarebbe stata sconquassata nella competizione con capitalismi più evoluti. In Occidente l´establishment condivideva il verdetto: accogliendo la Cina nel Wto il capitalismo si annetteva il più grande mercato del mondo. Nessuno aveva previsto come sarebbe andata a finire: con la Cina superpotenza trionfante nell´economia globale. Perciò nel 2001 i dirigenti cinesi avevano puntato sui Giochi come una scommessa a senso unico, che poteva solo giovare alla Repubblica popolare. L´immagine della Cina era rimasta macchiata dal 1989, il sangue degli studenti sparso sull´asfalto di Piazza Tienanmen di fronte alle telecamere della Cnn, la prima strage di Stato ripresa quasi in diretta mondiale. I Giochi del 2008 dovevano lavare virtualmente quell´asfalto, restituire a Piazza Tienanmen la sua agibilità sul mercato delle immagini. La Cina del 2001 si vedeva come una nazione emergente e così la vedevamo noi, senza la zavorra di invidie e timori che suscita una grande potenza. I Giochi erano il riscatto perfetto, una grande operazione di relazioni pubbliche per ingentilire la propria facciata, invitare turisti dal mondo intero, lasciarsi scoprire e apprezzare. Come le feste delle diciottenni di una volta per celebrare il proprio ingresso nella buona società. La comunità internazionale accolse la sfida, prese per buone le promesse del regime: se la Cina comunista cambia pelle - era il teorema più diffuso - oltre all´economia di mercato finirà per adottare il modello liberaldemocratico; ai diritti di proprietà seguiranno i diritti civili, alla libertà d´intraprendere quella d´espressione. In questi sette anni, "antefatto" fondamentale per capire i Giochi, il paradosso cinese ha preso scorciatoie sorprendenti. Ogni record storico è stato bruciato nella crescita economica. La Cina è balzata al secondo posto dietro gli Stati Uniti per la ricchezza nazionale. diventata quasi monopolista nella produzione di ogni tecnologia indispensabile alla vita moderna, dal computer al telefonino. Domina il consumo di materie prime, energia, risorse naturali. la prima fonte di emissioni carboniche che provocano il cambiamento climatico. Ha allungato i tentacoli dell´influenza politica e militare in Medio Oriente, in Africa, in America latina. Al proprio interno la Cina ha cavalcato l´apertura, concedendo ai propri cittadini di viaggiare all´estero. Ha sposato ogni innovazione, incluso Internet, varco potenziale per idee sovversive. Il regime ha promosso una nuova classe dirigente tecnocratica che ha studiato in America, si muove al World Economic Forum di Davos come a casa propria, sa "stare a tavola" con il vecchio establishment capitalistico americano ed europeo. Al tempo stesso la liberalizzazione politica si è bloccata. Le libertà di dissenso e d´opposizione restano tabù. Come i tibetani, anche i paladini dell´ambiente o i difensori dei contadini poveri sono esposti a ogni arbitrio poliziesco. Internet è censurato da 30 mila tecnici informatici al servizio della sicurezza di Stato. L´importanza delle Olimpiadi si è amplificata esattamente quanto lo status mondiale della Cina. Il paese che nel 2001 veniva "accolto" nella comunità internazionale oggi è un peso massimo contro il quale si mobilitano alleanze trasversali, tra constituency molto diverse: lobby protezioniste, ambientalisti, amici del Darfur, della Birmania, del Tibet. Pechino 2008 è diventata l´Olimpiade che annuncia l´alba del Secolo cinese: una parte dell´Occidente s´interroga su cosa significhi; un´altra parte è certa che sarà un´apocalisse. Tutti hanno scoperto di potere usare le Olimpiadi come una leva. Tanto il regime cinese ha investito in questa operazione d´immagine, quanto le opposizioni possono trasformarlo nello schermo gigante su cui proiettare le loro rivendicazioni. La presenza dei leader stranieri alla cerimonia d´apertura evoca il viaggio di Gorbaciov a Pechino nel 1989, che attirò la stampa internazionale e puntò i riflettori sulla lotta degli studenti per la democrazia. Il dibattito sul boicottaggio avviene in un contesto senza precedenti. In passato si boicottarono i Giochi del Nemico (l´Urss nella guerra fredda) o quelli dello Stato-Paria (il Sudafrica dell´apartheid). Ma la Cina è il partner per eccellenza, con cui il mondo intero fa affari ogni giorno. E tuttavia il suo regime autoritario non capisce che i leader occidentali non possono applicare esclusivamente la realpolitik degli interessi materiali e dei rapporti di forza; hanno delle opinioni pubbliche a cui rispondere. Pechino è in flagrante inadempienza delle promesse fatte nel 2001 - sullo smog o sui diritti umani - perché credeva che la cambiale dei Giochi sarebbe stata rinegoziata a porte chiuse con il Comitato olimpico internazionale e le multinazionali-sponsor. La cultura della nomenklatura comunista le impedisce di concepire questa irruzione dell´opinione pubblica democratica. Tantomeno ha previsto il gioco di sponda che ha contagiato i monaci buddisti e la gioventù tibetana. Che domani potrà allargarsi agli uiguri islamici, altra minoranza etnica oppressa. Intellettuali dissidenti o contadini diseredati, altri ancora possono essere attirati dall´opportunità di agosto. Il regime finora si chiude in difesa, tetragono e ottuso. La reazione esemplare è il divieto di riprese televisive in Piazza Tienanmen: viene "chiuso per lavori" il palcoscenico più simbolico, il luogo del potere dove storicamente va in scena la rivolta. La nomenklatura vive in una bolla. Crede di poter trattare l´opinione pubblica mondiale con gli stessi metodi - propaganda e censura - che usa dentro la Cina. Da qui alle Olimpiadi subirà centomila punture di spillo. Grazie ai Giochi la bolla che protegge il nuovo potere imperiale sarà messa alla prova. Federico Rampini