Il Sole 24 ore 30 marzo 2008, Piero Ignazi, 30 marzo 2008
Ma quella «casta» è tutta nuova. Il Sole 24 ore 30 marzo 2008. Gli anni Novanta rappresentano uno spartiacque nella politica italiana
Ma quella «casta» è tutta nuova. Il Sole 24 ore 30 marzo 2008. Gli anni Novanta rappresentano uno spartiacque nella politica italiana. Cambia il sistema elettorale e cambiano in maniera radicale i partiti. Il decennio inizia con la trasformazione del Pci in Pds: un processo lungo, accidentato e lacerante che occupa più di un anno, dal novembre 1989 al febbraio 1991. Un cambiamento sul quale vengono riversati fiumi di inchiostro. Ma pochi mettono in luce la ragione profonda della necessità di dire addio al comunismo e «costruire un nuovo partito»: e cioè che il Pci è un partito vecchio, come vecchi sono tutti gli altri partiti italiani, dal Msi al Psi passando per la Dc e i laici minori (Psdi, Pli, Pri). Perché sono partiti legati alle divisioni e ai conflitti di un’epoca lontana, di inizio Novecento; e perché sono ancora strutturati come partiti di massa (anche quando sono di dimensioni minuscole) in una società che non è più di massa essendosi trasformata in postindustriale. l’arretratezza ideologica, organizzativa e culturale di quei partiti storici che li porta alla catastrofe degli anni Novanta. Non per nulla quanto di nuovo nello stesso periodo sta emergendo nelle aree più sviluppate del paese, cioè nelle regioni settentrionali, non viene nemmeno visto: il 18,9% dei voti conquistati dalla Lega lombarda alle elezioni regionali del 1990, più i risultati tutti sopra il 5% nelle altre regioni del nord da parte delle varie leghe regionali, vengono rubricati come fenomeni folkloristici. Basterà però il soffio deciso dell’inchiesta Mani pulite sulla corruzione politica a far cadere il castello di carte dei vecchi partiti. Mentre Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli si disfano, l’unico a evitare il collasso completo, oltre al Msi che però è ancora in uno stato di ibernazione, è proprio il Pci, grazie al fatto di aver avviato, qualche anno prima, per quanto timidamente, una trasformazione interna. Quanto c’è di originale rispetto al passato negli attuali protagonisti del sistema partitico italiano? Quanto sono ideologicamente e organizzativamente diversi? Quanto è cambiata la classe politica? Senza dubbio, i riferimenti culturali hanno ben poco a che vedere con quelli del passato. Le posizioni ideologicamente antisistema, un tempo incarnate da comunisti e neofascisti, sono scomparse del tutto. Pulsioni antisistema come quelle della Lega, contro la comunità nazionale, sono comunque di natura ben diversa rispetto alle ideologie del Novecento. Il loro svaporamento ha avuto la sua ultima conferma con la recente confluenza dei Ds nel Partito democratico: in questo ulteriore passaggio della tormentata vicenda dei postcomunisti i diessini hanno finito per lasciare perdere, vuoi pro bono pacis verso i compagni di strada della Margherita, vuoi per astenia culturale, l’impronta socialista da loro così faticosamente acquisita (o forse perché non acquisita del tutto). Tramontati i rappresentanti delle ideologie forti novecentesche, è rimasta in campo solo quella liberaldemocratica. Per quanto disattesa e incompresa dai più, è però vero che, a livello formale, ufficiale, tutti vi si adeguano. E questo è certo un elemento di novità nei riferimenti culturali dei partiti italiani. Ancora più profondo il rivolgimento nella classe dirigente e nell’organizzazione. Sul primo versante, per quanto l’occupazione «militare» dei media da parte di una ristrettissima oligarchia partitica dia la sensazione di una loro antica presenza nelle stanze del potere, in realtà, a parte pochi casi, non è assolutamente così. La classe parlamentare si è rinnovata a tassi «rivoluzionari». Si pensi che Forza Italia, nel 1994, porta in Parlamento il 90% di novizi assoluti. E gli altri partiti non sono da meno. Questo vale tanto per quanto riguarda gli eletti, quanto – un po’ meno – per le classi dirigenti di partito. Quanto all’organizzazione, sono stati mandati in soffitta i miti dell’iscritto-militante e della vita di sezione. Tutti i partiti, ma soprattutto a destra, hanno assunto connotazioni presidenzialiste personaliste con conseguente svuotamento della vita interna di partito e inceppamento della catena di trasmissione dalla base al vertice. E nel caso di Forza Italia e Lega vanno aggiunti anche tratti carismatici. Inoltre gli eletti hanno guadagnato molto più spazio all’interno dei partiti, sia attraverso l’estensione della loro presenza ex officio negli organi deliberativi, sia grazie alle risorse che attingono direttamente dallo stato, sia grazie all’abbattimento della barriera tra dirigenti di partito e rappresentanti, un tempo molto rigida. Il Ppi di Martinazzoli aveva cercato di riproporre tale separazione – come d’altra parte continua a fare in una certa misura Rifondazione ”, ma ormai la sovrapposizione tra eletti e dirigenti è norma in tutti i partiti. Anche il controllo esercitato dal partito sugli eletti è stato archiviato nella maggior parte dei casi. Solo An e Rifondazione conservano il primato del partito sugli eletti. Insomma, l’impianto organizzativo e la stessa filosofia organizzativa che lo presiede fanno parte di un territorio sconosciuto ai vecchi partiti. In conclusione, oggi i nuovi partiti sono davvero tali rispetto a quelli pre-1990. Lo sono sul piano ideologico, organizzativo e della classe dirigente. Gli affreschi dei sei maggiori partiti italiani, quelli che dagli anni Novanta a oggi hanno superato la barra del 4% dei voti, tratteggiati in questo lavoro, cercano di mettere in luce tale scarto rispetto al precedente «stampo». Piero Ignazi