Avvenire 1 aprile 2008, GHERARDO MILANESI, 1 aprile 2008
«Noi, figli della dittatura». Avvenire 1 aprile 2008. Nel 2008 si celebrano i 25 anni del la fine della dittatura militare, ma l’Argentina continua a convivere con i fantasmi di quell’epoca come se vio lenza e repressione fossero terminati po co tempo fa
«Noi, figli della dittatura». Avvenire 1 aprile 2008. Nel 2008 si celebrano i 25 anni del la fine della dittatura militare, ma l’Argentina continua a convivere con i fantasmi di quell’epoca come se vio lenza e repressione fossero terminati po co tempo fa. Non passa settimana senza che si istruisca un nuovo processo contro i carnefici del regime durato dal 1976 al 1983: oggi sono aperte quasi mille cause penali con oltre 200 detenuti in attesa di giudizio. E sempre più spesso vengono a galla le storie dei ’figli della dittatura’: uo mini e donne che nel periodo della giun ta militare erano bambini, e che oggi, di ventati adulti, hanno deciso di denuncia re i crimini e i soprusi subiti nell’infanzia. L’ultima vicenda è quella di una giovane donna di Buenos Aires chiamata Ana Rita. Fino a qualche giorno fa il suo cogno me era Pretti. Oggi, grazie all’approvazio ne del tribunale, ha potuto assumere il co gnome della madre (peraltro già scom parsa) ed è diventata Ana Rita Vagliati. Mantenere quello del padre, il commissa rio Valentín Milton Pretti, implacabile re pressore per conto dellla giunta militare e luogotenente dell’allora capo della polizia di Buenos Aires Ramón Camps, era infat ti per lei diventato un incubo. Nel 2005. A na Rita, che oggi ha 35 ed è una giornali sta impegnata nel sociale, aveva richiesto, quasi supplicato, la giustizia argentina di concederle il cambio di cognome per po ter dimenticare di essere «la figlia di un torturatore», come lei stessa si definiva. Oltre due anni dopo è arrivato il sì del tri bunale. La motivazione della sentenza, pur nel suo linguaggio giuridico-burocratico, parla chiaro: «Il peso negativo esercitato dal nome di famiglia crea alla richiedente problemi di ordine soggettivo che le im pediscono di instaurare e sostenere rela zioni equilibrate con gli altri, dal momen to che si sente continuamente in dovere di cancellare il marchio di orrore simboleg giato dal suo cognome». Valentín Milton Pretti è morto nell’aprile del 2005 in regime di totale libertà, grazie all’ampia amnistia per i crimini della dit tatura concessa nel 1987 dall’allora presi dente radicale Raúl Alfonsín. Ana Rita non aveva aspettato la morte del padre per rin negare il proprio cognome: la richiesta e ra stata fatta quando l’ex commissario di polizia era ancora in vita. Né la giovane giornalista aveva fatto marcia indietro di fronte alla reazione ostile dei fratelli, che ancor aggi non si sentono di condannare il genitore. «Ho dovuto superare molti o stacoli. Ma sono andata avanti senza esi tazioni, perché dovevo assolutamente rompere con il passato – spiega Ana Rita ”. Mio padre non era uno psicotico: se lo fosse stato, sarebbe stato rinchiuso in qualche manicomio. No, lui era complice consapevole di una politica di terrore si stematico ai danni della popolazione civi le ». Il commissario ’Saracho’, così era so prannominato Pretti, tra il 1976 e il 1983 lavorò in ben quattro centri di detenzione clandestina e prese parte alla famosa o perazione Noche de los lápices (conosciu ta in Italia grazie a un film del 1987 come La notte delle matite spezzate), che portò al sequestro e alla scomparsa di sei stu denti liceali. «Mio padre stesso mi confes sò di averli ammazzati – ricorda Ana Rita – e non posso dimenticare un’altra terri bile confessione: mi raccontò che, nel cor so di un’operazione, era arrivato a uccide re persino un neonato». Negli stessi giorni in cui la causa di Ana Ri ta Vagliati si chiudeva, un’altra ’figlia del la dittatura’ apriva un processo contro i propri genitori, anch’essi coinvolti con il regime militare dei generali. Maria Euge nia Sampallo Barragán ha chiesto infatti per il padre e la madre adottivi (e per l’uf ficiale che la rapì) la pena di 25 anni di car cere per sequestro e negazione di identità. Maria Eugenia, che oggi ha 30 anni, ha in fatti scoperto solo nel 2001, attraverso l’e same del Dna, di essere figlia di una cop pia di militanti comunisti catturati e fatti sparire dai militari nel 1978. L’uomo e la donna che l’avevano cresciuta, nascon dendole sempre la verità, erano quindi due impostori, responsabili di averla sottratta illegalmente alla madre naturale, detenu ta in una delle 600 prigioni clandestine che il regime aveva creato in tutta l’Argentina. La sentenza è attesa per venerdì. La storia di Maria Eugenia non è inedita: negli an ni della dittatura si sviluppò un vero traf fico di figli di dissidenti, che coinvolse cir ca 500 bambini. Meno di cento di quei pic coli figli della sovversione strappati alle famiglie di origine e poi svaniti nel nulla sono stati finora rintracciati dall’associa zione ’Nonne di Plaza de Mayo’. Un numero ancora molto basso, come basso è il numero di desaparecidos iden tificati, mentre rimane consistente la quantità di ex funzionari ed ex collabora tori del regime che vivono e lavorano indisturbati. Secondo l’architetto e scultore Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la Pace nel 1980 per il suo impegno a favore del rispetto dei diritti umani in Argentina, «nella polizia e nelle Forze Armate vi sono ancora molti degli antichi repressori e lo stesso si può dire per alcuni magistrati. Mi auguro che, con l’abolizione delle vecchie leggi che garantivano l’impunità, molti dei responsabili possano essere scoperti». Il processo di accertamento delle respon sabilità individuali, insomma, è destinato a continuare. Riaprirà vecchie ferite e an tichi traumi ma, senza di esso, difficil mente l’Argentina potrà fare pace con il suo drammatico passato. GHERARDO MILANESI