Sergio Romano, Corriere della Sera 2/4/2008, 2 aprile 2008
Gli esperti sostengono che il vertiginoso rialzo del prezzo del petrolio, che si aggira ormai al di sopra dei 100 dollari al barile, è frutto della speculazione
Gli esperti sostengono che il vertiginoso rialzo del prezzo del petrolio, che si aggira ormai al di sopra dei 100 dollari al barile, è frutto della speculazione. Vero o no, a noi consumatori toccherà pagare gli aumenti correlati, come accade del resto per qualsiasi prodotto, poco importandoci a chi debba esser fatta risalire la colpa. Sulla scena internazionale, tuttavia, è presente un dubbio inquietante. L’Iraq è uno dei principali produttori al mondo di petrolio. Delle estrazioni in quella zona nulla si sa. Si sa però che l’intera produzione è sotto stretto controllo americano. Viene da pensare che i ricavi della vendita servano agli occupanti per compensare in qualche modo l’enorme dispendio di denaro per mantenere le truppe «fuori casa». un ragionamento malevolo o può avere un fondo di verità? E se è malevolo, quale strada si può supporre che prenda il petrolio iracheno? Lorenzo Milanesi Milano Caro Milanesi, Non credo che gli Stati Uniti possano utilizzare i proventi del petrolio iracheno per finanziare le spese dell’occupazione. La produzione in Iraq si aggira intorno ai 2,3 milioni di barili al giorno, un quarto della produzione saudita e un quantitativo di poco superiore a quello dell’anteguerra quando il Paese era soggetto all’embargo dell’Onu. Più recentemente abbiamo appreso che il governo di Bagdad intende pagare più di due miliardi di dollari a cinque grandi compagnie petrolifere straniere (probabilmente Exxon, Shell, Bp, Chevron e Total) affinché aumentino la produzione di grezzo, complessivamente, di mezzo milione di barili al giorno. Secondo Il Sole 24 Ore del 20 marzo ciascuna di esse avrà in concessione un nuovo giacimento e il pagamento del governo iracheno potrebbe essere in petrolio o in denaro. Ma il parlamento di Bagdad non è ancora riuscito ad adottare una legge sulla ripartizione dei proventi petroliferi fra le diverse regioni del Paese. I sunniti abitano zone povere di idrocarburi e vorrebbero che la ricchezza venisse distribuita equamente fra tutti gli iracheni. Sciiti e curdi hanno i giacimenti e li tengono stretti nelle loro mani. Aggiunga a tutto questo il boicottaggio degli oleodotti, le difficoltà di trasporto, il fabbisogno nazionale (gran parte del Paese riceve elettricità soltanto per alcune ore al giorno): giungerà alla conclusione che l’Iraq non è in grado di dare alcun contributo alla diminuzione dei prezzi sul mercato petrolifero mondiale e che gli americani non possono trarre alcun beneficio dalle sue risorse naturali. Gli Stati Uniti possono invece, come è accaduto in questi ultimi anni, contribuire all’aumento del prezzo del petrolio e a quello di altre materie prime generalmente quotate in dollari. Secondo Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, la guerra irachena è costata sinora tremila miliardi di dollari che potrebbero salire a cinquemila miliardi se fra i costi venissero incluse le spese «fuori bilancio per i benefit e le cure a lungo termine dei veterani, il ripristino dell’esercito nella sua forza prebellica e il costosissimo ritiro dall’Iraq con il riposizionamento delle forze altrove nella regione». Più recentemente, in un discorso elettorale sul costo della guerra, il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti Barack Obama, ha ricordato che la prima Guerra del Golfo, nel 1991, costò complessivamente al Tesoro americano venti miliardi di dollari: «La somma che noi paghiamo oggi in Iraq ogni due mesi ». Insieme ad altri fattori (il colossale debito delle partite correnti, la crisi dei mutui) la guerra ha avuto una forte ripercussione sul valore del dollaro e, quindi, delle principali materie prime. Una ragione di più per ringraziare l’euro. Il Wall Street Journal ricordava qualche settimana fa che il prezzo del petrolio in dollari è cresciuto nel 2007 del 63% e quello in euro del 46%.