varie, 1 aprile 2008
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Uncini Giuseppe
• Fabriano (Ancona) 31 gennaio 1929, Trevi (Perugia) 31 marzo 2008. Scultore. «[...] Non si può certo dire che i lavori di Giuseppe Uncini provochino forti emozioni, nati come sono – e sviluppatisi – solo sull’dea che l’rte sia un continuo edificare. Anzi una vera e propria costruzione che fiancheggia l’architettura. er i Cementarmati, i Ferrocemento, i Muri d’ombra, gli Spazicemento, i Tralicci, e via dicendo, sono stati citati i costruttivisti russi (Tatlin) e il Bauhaus tedesco (Gropius), così come s’ fatto un raffronto coi Sacchi di Burri, ma in realtà i ”ateriali da costruzione”di Uncini sono ”nati” per caso, anzi per necessità. Lo ricordava egli stesso in un’intervista di qualche anno addietro. Nel ”50, l’artista lascia le Marche e tenta l’avventura romana con l’aiuto del corregionale Edgardo Mannucci, che lo ospita nel proprio studio di via Margutta. Furoreggia l’Informale. Come altri artisti, il giovane Uncini fa la fame. E come altri artisti, non potendosi permettere tele e pennelli, sperimenta altri materiali. Lo stesso vale per Burri. I suoi sacchi non servono ad altro che a preparare un quadro. ”E poi andò a finire in un altro modo”, ricorderà Uncini. Proprio nella Capitale nasce il sodalizio coi vari Schifano, Festa, Angeli, Lo Savio, Manzoni. Con Milano, Roma è uno dei due poli dell’avanguardia italiana (Capogrossi, Cagli, Afro, Turcato, Leoncillo e molti altri). Uncini usma tutti, ma va per suo conto. Adopera cartoni, compensati, masonite, cellotex. Colori? Polvere di marmo, tufo, carbone, cemento, cenere. Nascono le prime Terre. Talvolta impasta il cemento con qualcosa che assomiglia a un colore e il grigio prende un altro aspetto. Naturalmente i primi lavori sono influenzati dall’Informale. Poi gli viene un’idea. Anzi, l’Idea. ”La mia preoccupazione quotidiana è quella di fare [...] mi interessa il desiderio dell’uomo di costruirsi la propria dimora; [...] azioni dirette da leggi ben precise, frutto di un pensiero e di un calcolo che determinano anche un’estetica”. Il primo Cementarmato è del 1958. Col tempo, Uncini sul cemento innesta tondini di ferro, oggetti geometrici, pietre, mattoni, strutture di reti metalliche. Lascia, inoltre, l’impronta del legno. Muta anche l’architettura, la disposizione dei vari elementi. E, una volta che può permetterselo, recupera il colore. Ma cum grano salis, si potrebbe dire. Perché del colore, Uncini ha un’idea personalissima: ”Per me non ha né corpo, né materia, né peso e intendo contrapporlo al cemento[...] il colore apre uno spazio proiettato all’infinito nel quale è impossibile trovare indicazioni, è qualcosa di freddo che si contrappone alla mia idea di materia”. Gruppo Uno, Biennali, Triennali, Quadriennali, retrospettive, l’insegnamento. Ma fra lui e l’arte ci sarà sempre un Muro» (Sebastiano Grasso, ”Corriere della Sera” 1/4/2008) • «[...] stato uno dei massimi nostri scultori della seconda metà del secolo ventesimo, e la sua opera l’aveva condotto, sin dagli inizi degli anni Sessanta e con un felice incremento in particolare negli ultimi anni, a confrontarsi con le più aggiornate ricerche europee. I grandi Tralicci e Spaziocementi, per dire solo di alcune delle sue serie ultime, rimarranno, con i loro incastri ossessivi e i quasi feroci sbarramenti, con le ombre che scavano illusive profondità nel cuore delle opere, nella memoria di chi ama la scultura. Una scultura in cui, sin dall’avvio del suo fare, subito straordinariamente intenso e maturo, Uncini ha immesso, e spinto a convivere, valori costruttivi ed altri opposti, di pungente, quasi sofferta sensibilità materica. Così furono i primi Cementarmati, esposti nella prima mostra che sancì la raggiunta maturità d´artista, all’Attico, nel giugno del 1961. Ed Enrico Crispolti, che li presentava nella galleria che era stata il primo luogo di riferimento della cultura informale a Roma, e che d’ora in avanti ne registrerà puntualmente i principali sviluppi, riconosce sin d’allora questa loro duplice valenza. Da altri riconosciute, queste opere (allora e dopo: ma meno plausibilmente) come espressione d’una ormai incipiente temperie neodadaista (per l’apparenza di ”residuo” che mostrerebbe la materia di cui sono costituite), o come preavvisi d’una poetica poverista; ovvero ancora, assai più giustamente, come segnali precoci d’una volontà di intera rifondazione del concetto stesso di arte, fino a sfiorare quel ”silenzio del fare” (Giovanni Accame) che sopisca l’ansia di confessione e scelga per sé un’opposta, rastremata vocazione concettuale, è ben chiaro comunque che queste ”cose di Uncini”, come allora le battezzò - con non celato stupore, ma cogliendone subito il tasso forte di innovazione linguistica - Giovanni Urbani su Il Punto, si pongono come opere esemplari di quel confluire, a quelle date, e talora in un’unica immagine che se ne faccia interamente carico, di istanze anche assai diverse. I Cementarmati sono, nella loro prima e più intensa stagione, opere in bilico fra pittura e scultura, nate sulla parete, dove la superficie scabra del cemento si dispone, percorsa e vibrata al suo interno, nei margini, da tramature forti, evidenti del filo di ferro. Da un canto, quella superficie tormentata - pulsante di luci corrusche, ferita da un segnare aspro e talvolta dal depositarsi delle ruggini che, come a mimare impronte pittoriche, i ferri lasciano sul cemento - avverte ancora qualcosa del clima informale donde anche Uncini proviene. Ma dall’altro, e all’opposto, le nitide porzioni di spazio che il cemento fa evidenti, e la stessa semplice griglia istituita dal filo di ferro, disposta sempre più di frequente a costruire un disegno geometrizzante fondato sull’incrocio fra le ascisse e le ordinate, rinviano ad un’altra temperie di forma, che è la stessa - neoplastica o neoconcreta - che sottende i Ferri di Burri, strettamente coevi ai Cementarmati. Spartiacque, furono fin da allora i Cementarmati: spalti ove quanto è stato confligge con quel che sarà. L’intuizione di Uncini è, in tal senso, folgorante. E se lo sviluppo venturo del suo lavoro accrediterà ulteriormente l’intuizione di Crispolti, volta a privilegiare in essi la componente costruttiva (ove forte diverrà presto, analogamente a quanto accade in Consagra, l’implicazione con un pensiero sociale, architettonico e urbanistico: temi che diverranno cruciali soprattutto nel tempo in cui Uncini aderirà al Gruppo Uno, fondato nel 1962), per allora essi sono, carichi di memorie e insieme di ipotesi aperte al futuro, fra le immagini più intense e felici dei loro anni. Per quel loro voler essere, da un canto, un grado zero della forma: non ignari, certo, di quanto Azimuth aveva a Milano desunto da Klein (attraverso Fontana). E ancora, per quella loro capacità d’asserire con parole scarne l’atto formativo che li ha generati, e le sue implicazioni prima di tutto mentali. Per quella castità loro, e quasi nudità d’immagine - cui ambiscono, e che toccano - che li preservi da ogni compiaciuto edonismo. Ma insieme, intensi e forti sono i Cementarmati per quel loro talento di raccogliere, da quanto Uncini aveva negli occhi, il retaggio più alto (dai citati Ferri di Burri, ad esempio, l’uscita dal grido davvero informel che aveva connotato le sue plastiche combuste); ma di non disperdere, sotto la pressione di un’ansia di rinnovamento, l’intensità del sentire di una generazione che aveva dato all’Italia l’arte forse più alta del secolo» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 1/4/2008).