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 2008  marzo 31 Lunedì calendario

DITH PRAN Siem Reap (Cambogia) 27 settembre 1942, New Jersey (Stati Uniti) 30 marzo 2008. Giornalista

DITH PRAN Siem Reap (Cambogia) 27 settembre 1942, New Jersey (Stati Uniti) 30 marzo 2008. Giornalista. «I suoi occhi avevano visto l’inferno portato in Cambogia dai Khmer Rossi. Era stato imprigionato, torturato e infine era riuscito a fuggire dai killing fields, i campi della morte, che avevano inghiottito le vite di un milione e settecentomila esseri umani tra il 1975 e il ”79. [...] fotografo e giornalista per il New York Times, la cui terribile esperienza era diventata nel 1984 un film intitolato appunto The Killing Fields (in italiano: Urla del silenzio, di Roland Joffé) [...] Nel 1976 Schanberg fu premiato con il Pulitzer per i suoi servizi dal Sud-Est asiatico mentre Pran cercava di sopravvivere in un campo di concentramento. ”Sapeva che non avremmo avuto alcuna possibilità senza di lui – ha ricordato ieri Sydney Schanberg ”. Così mise in gioco la sua vita per salvare la nostra”. Il giornalista americano non fu fucilato dai Khmer rossi che avevano appena conquistato Phnom Penh grazie alla parlantina e al coraggio di Dith Pran, il suo interprete-factotum che facendosi notare dai nuovi padroni della Cambogia finì per condividere la stessa sorte di migliaia di concittadini. Poco dopo la partenza degli ultimi reporter stranieri, Dith sperimentò sulla propria pelle l’utopia di Pol Pot: le città furono svuotate e gli abitanti inviati in campagna per essere ”rieducati” come cittadini di una nuova nazione ”depurata” dalle influenze occidentali e borghesi. Si sa come finì l’esperimento: nel regno del terrore dei Khmer rossi, un terzo dei cambogiani fu ucciso e sepolto sommariamente. Fu poi proprio Dith Pran che, quando riuscì a fuggire verso la Thailandia, inciampando continuamente in resti umani, coniò l’espressione killing fields. ”Vedo una montagna di teschi e ossa – scrisse nella prefazione al libro Figli dei campi della morte cambogiani: le memorie dei sopravvissuti ”. Quello che vedo di fronte a me è troppo doloroso. Questi sono i miei parenti, gli amici, i vicini”. Pran perse nei killing fields tutta la sua famiglia: oltre 50 persone. Arrivato fortunosamente in Thailandia, nel 1979, Dith trovò ad attenderlo il suo amico Sydney Schanberg che lo portò negli Stati Uniti. Dove, oltre a rifarsi una vita, ed essere apprezzato per il suo lavoro di fotografo, continuò a tenere viva la memoria dell’Olocausto del suo popolo: ”Voglio che i cambogiani, soprattutto le nuove generazioni, non dimentichino i volti dei familiari e degli amici uccisi in quel periodo. I morti ci stanno ancora chiedendo giustizia”» (Paolo Salom, ”Corriere della Sera” 31/3/2008). «[...] Era l’aprile del 1975 [...] quando i Khmer Rouge di Saloth Sar, alias Pol Pot, alias ”Il Grande Zio”, alias ”Il Primogenito”, presero il controllo della Cambogia, da lui ribattezzata Kampuchea, e proclamarono quell’anno ”l’Anno Zero” della costruzione di un comunismo rurale e primitivista, capace di purgare tutte le influenza tossiche dell’Occidente che la guerra fra il vicino Vietnam e gli Stati Uniti avevano iniettato in una terra dolce e mite come fino alla guerra la Cambogia era. Dith, che aveva assistito Schanberg nelle sue corrispondenze dalla capitale Phnom Penh e aveva salutato sul New York Times il ritiro degli americani nel 1973 come ”l’avvento di un tempo di libertà e di pace per questa regione” dovette constatare direttamente di quale pace e libertà fossero portatori i primitivisti del ”Grande Zio”. Mentre migliaia, e poi milioni, di cambogiani, venivano tradotti in marce forzate, verso le risaie, i campi, i gulag dove sarebbe stato rieducati a colpi di bambù, di esecuzioni sommarie, di lavoro manuale 24 ore al giorno e diete a base di una ciotola di acqua della bollitura del riso con qualche chicco di grano sparso dentro, il giornalista del Times riuscì a partire. Ma non il suo assistente e fotografo, Dith Pran, macchiato indelebilmente dalla collaborazione con un ”imperialista” e quindi sospetto di essere un uomo della Cia, o del Kgb, perché la paranoia di Pol Pot non risparmiava - come vedremo a ragione - neppure i traditori sovietici. Per 5 anni, osservando lo sterminio di un popolo senza altra colpa che di essersi trovato come la noce nella morsa dello schiaccianoci della Guerra Fredda divenuta laggiù rovente, l’ometto che arrivò a pesare 40 chili, sopravvisse, documentò, registrò. E portò in Thailandia, dopo una marcia di mesi nella giungla tropicale, il ricordo di quei killing fields, come lui li battezzò, dei campi della morte dove un terzo della popolazione cambogiana lasciò la vita. Ne uscirono un libro, un film divenuto giustamente famoso, e un premio Pulitzer per Schanberg, che anni dopo sarà licenziato con rabbia dal New York Times che lo aveva confinato al city desk, alla cronaca locale, dove lui fremeva, nell’incurabile sofferenza e irrequietezza del reduce disadattato. Lui stesso vinse importanti premi giornalistici e fotografici, divenne ambasciatore di buona volontà per l’Onu, battendosi per ricordare quella e altre tragedie delle ideologie, dei fondamentalismi di tutte le religioni militanti e dell’odio. Ma soprattutto, Dith Pran, che vide un proprio collega sopravvissuto ai ”campi” ucciso in una rapina nel Bronx e fu lui stesso aggredito e derubato uscendo dopo un turno di notte al servizio fotografico del Times (la direzione lo ricollocò nel lavoro di giorno, per evitarsi l’imbarazzo del survivor dei campi della morte ammazzato a Times Square), fu uno dei più devastanti colpi inferti a quei miti del ”comunismo asiatico” che prima le Guardie Rosse di Mao e poi i Vietcong di Ho Chi Minh avevano creato, in chi non li doveva vivere di persona. Furono proprio le truppe del Vietnam ormai riunificato sotto il controllo del Nord, spinto da Mosca, a intervenire a spazzare via Pol Pot e i Khmer nel 1978, mentre l’ometto che aveva aperto la gabbia di bambù e svelato il massacro si sposava a New York, aveva tre figli e una decina di nipoti, si vedeva onorato e riconosciuto per quello che era, un eroe modesto della virtù più difficile, la testimonianza giornalistica in prima persona. Nessuno saprà mai esattamente quanti innocenti esseri umani siano stati annientati dalle allucinazioni egalitariste e primitiviste dei Khmer. Si va dai 2 milioni e 300 mila calcolati dal francese Francois Ponchaud agli 800 mila dati dallo stesso Pol Pot. ”Noi cambogiani - dirà il fotografo che demolì un silenzio - sappiamo che il corpo è soltanto una scatoletta di legno fradicia, dalla quale l’anima prima o poi volerà via come un uccello finalmente libera [...] Mi addolora soltanto non avere mai potuto vedere Pol Pot processato davanti al mondo”. Non si era mai considerato un eroe, un martire, forse neppure un giornalista chiamato a chissà quali missioni di verità, ma soltanto uno di quelli che sopravvivono sempre anche al più sistematico e puntiglioso degli stermini. Dith era l’incubo di despoti e dei massacratori attraverso la storia: quello che torna da loro inferno per raccontarci come è fatto» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 31/3/2008).