Bjørn Lomborg, L’ambientalista scettico, Mondadori 2001., 28 marzo 2008
L’ambientalista scettico Capitolo X: "Le foreste stanno scomparendo?" Il direttore generale del Wwf Claude Martin nel 1997 convocò una conferenza stampa intitolata ”L’undicesima ora delle foreste del pianeta”
L’ambientalista scettico Capitolo X: "Le foreste stanno scomparendo?" Il direttore generale del Wwf Claude Martin nel 1997 convocò una conferenza stampa intitolata ”L’undicesima ora delle foreste del pianeta”. E si espresse così: «Supplico i leader della Terra affinché si impegnino di persona fin da ora per salvare le foreste che restano nei loro paesi: per le foreste del pianeta è giunta l’undicesima ora. L’estensione e la qualità delle foreste del pianeta continuano a diminuire a ritmo sostenuto». A livello globale la superficie della Terra coperta da foreste è rimasta costante per tutta la seconda metà del XX secolo. Il manto forestale complessivo è passato dal 30,04% delle terre emerse del 1950 al 30,89% del 1994, con un aumento di 0,85 punti percentuali in 44 anni. Una serie di dati più breve indica invece che negli ultimi 35 anni il manto forestale è calato dal 32,66% al 32,22%. L’Europa ha perso fra il 50 e il 70% delle foreste originarie. Una buona parte delle foreste del continente è stata abbattuta all’inizio del Medioevo per ottenere terreno da coltivare o legna da ardere. Metà delle foreste francesi scomparve fra il 1000 e il 1300. Intorno alla metà del XIV secolo la peste nera ridusse la popolazione europea di un terzo e di conseguenza anche la distruzione delle foreste diminuì. Poi dal 1700 in avanti la superficie delle foreste in Europa diminuì di appena l’8%. Negli Stati Uniti è scomparso soltanto il 30% circa delle foreste originarie, soprattutto nel XIX secolo. La deforestazione non ha raggiunto i livelli europei poiché in questo continente la pressione demografica è sempre stata minore che in Europa. Il raddoppio della superficie agricola degli Stati Uniti, realizzato tra il 1880 e il 1920, non ha quasi intaccato l’area forestale totale perché la maggior parte dei nuovi terreni derivava dallo sfruttamento delle praterie. In America Latina il manto forestale si è ridotto di circa il 20% negli ultimi 300 anni. La maggior parte delle foreste ha lasciato il posto alle coltivazioni della canna da zucchero e più tardi di caffè, mentre la corsa all’oro e ai diamanti, iniziata nel 1690, ha contribuito alla distruzione di circa il 2% delle foreste del Brasile. L’Asia meridionale e la Cina nel complesso hanno perduto circa il 50% del manto forestale a partire dal 1700. Nel sudest asiatico, d’altro canto, la perdita è stata di appena il 7% negli ultimi 300 anni. Africa e Russia hanno perso poco meno del 20%. A livello mondiale è stato calcolato che la percentuale del manto forestale originario perduta dall’inizio delle attività agricole sia nell’ordine del 20%. Questo dato è di gran lunga inferiore a quelli che vengono spesso diffusi dalle varie organizzazioni (per esempio ilWwf, secondo cui l’umanità avrebbe perso due terzi dell’intero patrimonio forestale). Dalle foreste derivano circa 5000 prodotti commerciali. I più importanti sono il legname da costruzione, i mobili, la carta e la legna da ardere. Si è stimato che l’industria forestale contribuisce al Pil mondiale per circa il 2%. Inoltre boschi e foreste aiutano a prevenire l’erosione del terreno che a sua volta provoca l’interramento di fiumi e bacini idrici, e contribuiscono quindi a ridurre il rischio di alluvioni. Infine le foreste, soprattutto quelle pluviali, rappresentano l’habitat di moltissime specie di animali. Negli ultimi 40 anni l’estensione delle foreste nelle zone temperate (America del Nord, Europa, Russia) è aumentata. Allo stesso tempo vaste aree delle foreste tropicali stanno scomparendo. Queste ultime sono l’habitat naturale della maggioranza delle specie animali e vegetali e rappresentano la più grande concentrazione di biomassa del pianeta. Nella foresta pluviale, cioè nella zona più umida della foresta tropicale, è possibile trovare diverse centinaia di specie di alberi in poche centinaia di chilometri quadrati (in Canada, invece, su una superficie di 1000 chilometri quadrati di foresta ci sono solo 20 specie diverse di alberi). Verso la fine degli anni ”70 si diffuse il timore che la metà o più delle foreste pluviali sarebbe scomparsa nel giro di pochi decenni. Il rapporto sull’ambiente Global 2000 voluto dal presidente americano Carter, valutava la perdita annuale di aree di foresta tropicale fra il 2,3% e il 4,8%. All’inizio degli anni Novanta il biologo Norman Myers affermò che ogni anno viene distrutto il 2% di tutte le foreste (giunse a sostenere che in pochi decenni «potremmo assistere alla virtuale scomparsa di tutte le foreste tropicali»). I dati reali sono molto diversi: le stime della Fao hanno valutato la deforestazione netta nelle aree tropicali negli anni ”80 intorno allo 0,8% annuo, con una riduzione allo 0,7% negli anni ”90. In un rapporto del 2001, basato su immagini catturate dai satelliti, si leggeva che la percentuale di deforestazione nelle aree tropicali ha subito un’ulteriore diminuzione toccando lo 0,46%. La deforestazione rimane tuttavia elevata perché le foreste pluviali sono di tutti, nessuno ne è responsabile. I primi che arrivano in un’area la disboscano e la coltivano, provocando danni al terreno. In secondo luogo le foreste tropicali costituiscono una fonte preziosa di legname. Molti paesi in via di sviluppo con problemi economici trovano una veloce soluzione nel commercio di legname con grandi società. In Suriname, per esempio, alcuni gruppi industriali hanno offerto investimenti equivalenti al Pil locale in cambio del diritto di tagliare un terzo degli alberi del paese. Con un’inflazione al 500% e un tasso di disoccupazione in continua crescita, quest’offerta era in pratica irresistibile. La raccolta di legna di ardere costituisce una delle principali cause della deforestazione nei paesi in via di sviluppo. Sebbene il legno fornisca solo l’1% del consumo energetico mondiale, copre il 25% dell’energia utilizzata nei paesi in via di sviluppo e addirittura il 50% in Africa. Ciò contribuisce alla deforestazione e alla desertificazione a livello locale. La deforestazione non regolamentata è dunque dovuta alla presenza di poveri e di senza terra, e lo sfruttamento eccessivo della legna da ardere altro non è che una conseguenza dei bassi livelli di reddito. Entrambi i problemi possono essere risolti solo con la riduzione della povertà e l’aumento della crescita economica. Se i paesi industrializzati vogliono intervenire nella questione della deforestazione delle regioni tropicali, devono offrire denaro ai paesi in via di sviluppo in cambio della tutela delle foreste. Quanta foresta tropicale è scomparsa? La Internationale Union for Conservation of Nature and Natural Resources ha calcolato che l’80% del manto forestale originario sia intatto. Nel corso dei secoli, quindi, solo il 20% di tutte le foreste tropicali è andato perduto. Paragonato alle cifre relative ai paesi industrializzati, in cui quasi la metà delle foreste è stata abbattuta, il dato appare relativamente contenuto. Paesi come la Nigeria o il Madagascar hanno dichiarato di aver perso più della metà delle foreste pluviali, ed è probabile che l’America centrale abbia visto scomparire fra il 50 e il 70% delle proprie. Tuttavia questi paesi ospitano solo il 5% circa del totale delle foreste tropicali mondiali, la maggior parte delle quali si trova nell’Amazzonia brasiliana. Le foreste brasiliane costituiscono circa un terzo dell’intero patrimonio forestale tropicale del pianeta. E la deforestazione complessiva dell’Amazzonia, fin dall’arrivo dell’uomo, non ha superato il 14% del totale e almeno il 3% di tale percentuale di superficie è stato da allora sostituito da nuove foreste. « necessario chiedersi se la nostra indignazione per la deforestazione delle aree tropicali abbia ragione di esistere, considerando il livello di disboscamento che hanno subito Europa e Stati Uniti. Sembra un atteggiamento ipocrita ammettere di aver tratto grandi vantaggi dall’abbattimento di vaste estensioni di foresta a casa propria e al contempo non permettere ai paesi in via di sviluppo di avvalersi degli stessi benefici». Gli abitanti dei paesi in via di viluppo spesso sfruttano le loro foreste in modo avventato, con una politica che nel lungo periodo si ritorcerà contro di loro. Tale sfruttamento è da imputare alla povertà dei singoli cittadini e all’esiguità delle finanze pubbliche. Ogni proposta di soluzione dovrà dunque includere una crescita economica stabile. Inoltre se si vuole davvero porre un freno alla riduzione della biodiversità occorre mettere mano al portafogli. Se si vuole che i paesi in via di sviluppo non facciano del loro patrimonio forestale ciò che noi abbiamo fatto del nostro si devono offrire loro degli incentivi. Negli anni Settanta si disse che le foreste tropicali sono i polmoni della Terra. Si tratta di un mito: le piante producono ossigeno per mezzo della fotosintesi, ma quando muoiono e si decompongono consumano quella stessa quantità di ossigeno. Dunque, una foresta in equilibrio, in cui nuovi alberi crescono e quelli vecchi muoiono, e dove la biomassa rimane più o meno costante, né produce né consuma ossigeno in termini netti.