Liberazione 21 marzo 2008, Sara Cascelli, 21 marzo 2008
«Io scrittore giallista ho paura della paura». Liberazione 21 marzo 2008. Magistrato presso la Corte d’Assise, dopo anni da giudice di sorveglianza e poi di Tribunale
«Io scrittore giallista ho paura della paura». Liberazione 21 marzo 2008. Magistrato presso la Corte d’Assise, dopo anni da giudice di sorveglianza e poi di Tribunale. Scrittore, sceneggiatore, autore di testi per il teatro e la televisione, traduttore. Il grande pubblico lo ricorda come l’autore di Romanzo criminale , da cui è stato tratto un film di grande successo, mentre i lettori più appassionati lo conoscono come uno dei maggiori scrittori di noir d’inchiesta, primo autore italiano ad essere invitato al Festival delle letterature di Roma. Lui stesso in una battuta ha detto: «Tutta l’energia che ho investito nella scrittura mi ha salvato definitivamente dall’analista». E a 52 anni Giancarlo De Cataldo si sente un privilegiato: «ogni volta che mi metto davanti alla pagina bianca, sto per avviare un nuovo progetto, un nuovo sogno, vado a dormire chiedendomi che cosa inventerò domani per i miei eroi di carta. Non è magnifico?». Ora che un suo libro è appena arrivato negli scaffali delle librerie e un altro sta per essere concluso, viene da chiedersi: in quale veste le viene spontaneo presentarsi a chi non la conosce? «Piacere, Giancarlo De Cataldo. Poi se c’è qualcosa di interessante da scoprire, parliamone». Allora partiamo dalle sue occupazioni principe: la magistratura e la scrittura. In un’intervista ha dichiarato che non lascerebbe la toga perché la magistratura rappresenta un’inestimabile fonte di ispirazione. Ci sono stati casi che le hanno dato lo spunto per scrivere una storia? Ho cominciato a scrivere racconti quando avevo otto, nove anni. Scrivo da allora, da sempre. Non mi è venuta l’idea quando ho indossato la toga. La fonte d’ispirazione non sta comunque nella magistratura in sé, quanto nell’abbondanza e varietà dei tipi umani che si incontrano nelle aule di giustizia, o nelle carceri (ci ho lavorato per qualche anno). Sicuramente le vicende della Banda della Magliana mi hanno offerto molti spunti per Romanzo Criminale , che resta fondamentalmente un’opera di fantasia. Uno scrittore rielabora, ridisegna, "tradisce" sempre la realtà ad esclusivo vantaggio della drammaturgia. "Teneri assassini" è, per esempio, una serie di racconti ancorati all’attualità, sulla vicenda di adolescenti criminali protagonisti di processi che lei ha seguito negli anni. Cosa l’ha spinta a scriverne, peraltro in anticipo rispetto all’esplosione del fenomeno della criminalità adolescenziale cui si assiste attraverso i media? Anche nel caso di Teneri Assassini , il processo è solo l’occasione per entrare in contatto con tipi umani. Il racconto scava nel non-detto di un processo. Un racconto consente l’inestimabile libertà di poter ricercare le radici di un evento, penetrando sin nell’intimo dei protagonisti. Alla fine, tanto il fatto in sé che le psicologie delle persone perdono i loro connotati di realtà: l’uno diventa "narrazione", gli altri si mutano, da persone in personaggi di una storia raccontata. E quale legame ha con la sua biografia il giovane e disincantato avvocato Bruio, protagonista del suo primo romanzo, "Nero come il cuore", considerato che ha recentemente rivisto e riedito questo suo libro? Un avvocato è più libero di un magistrato. Può inventare le teorie più fantasiose per vincere un processo. Non risponde, se non alla propria coscienza e alla deontologia professionale, delle sue mosse, tattiche e strategie. Può esprimere giudizi con una nettezza che a un giudice è preclusa. Per questo scelsi un avvocato come protagonista del mio primo romanzo. Nella riedizione, ho aggiunto qualcosa - sono cresciuto, nel frattempo, anche anagraficamente - e tolto qualcos’altro: un certo entusiasmo ingenuo, una fede spontanea che il Valentino Bruio dell’89 possedeva largamente e che quello del 2006 ha sicuramente perso strada facendo. Come vive il suo legame con la magistratura, soprattutto oggi che l’Istituzione è spesso sotto i riflettori per le accuse di faziosità che subisce da più parti? Sarò franco. Dopo diciotto anni che me la sento porre, questa domanda sul rapporto fra lo scrittore e il magistrato, mi pare da un lato così scontata che ho sempre da parte tre o quattro risposte standard, da modulare secondo l’interlocutore: c’è quello che va rassicurato sul fatto che non condanno personaggi di fantasia e non assolvo colpevoli in carne e ossa perché mi sono letterariamente simpatici; quello che mi accusa di essere una specie di quinta colonna del crimine o l’ultimo nostalgico della III Internazionale e gradirebbe che si impedisse ai giudici di pubblicare libri; quello angosciato dal tempo a cui dico che non so giocare a tennis e che, in definitiva, del mio tempo libero dispongo come più mi aggrada. Sono ormai arrivato a sognare un Paese nel quale a uno scrittore si fanno domande sui suoi libri, li si giudica, li si ama o li si stronca a prescindere dalla sua professione primaria. D’altronde, non esiste, per fortuna, un Albo Nazionale degli Scrittori con obbligo di quota d’iscrizione e partecipazione all’assemblea annuale. E mi consolo pensando che gli uomini, anche quelli in toga, passano. I libri, se hanno un minimo valore, restano. Il suo ultimo romanzo, "Onora il padre", e i suoi personaggi, ruotano tutti intorno alla figura del padre, reale o metaforica, con una centralità che riporta quasi alla letteratura shakespeariana. Quali sono le responsabilità dei padri? Sono stato un figlio conflittuale, e, ora che sono padre, mi trovo ad affrontare la naturale conflittualità del rapporto. Quando scrissi Onora il Padre non immaginavo che, dopo anni, il dibattito sul ruolo del padre sarebbe esploso così violentemente. La nostra colpa di padri è duplice: da un lato siamo troppo spesso assenti. Dall’altro, dopo aver costruito per i nostri figli una società a misura di consumatore, averli rimbambiti di cose inutili, spinti in braccio a tecnologie alienanti, ce la prendiamo con loro perché non sono brillanti, operosi, coraggiosi e combattivi. E li chiamiamo, ingiustamente, bamboccioni. C’è un diffuso moto di ritorno al patriarcalismo, all’autoritarismo, sorretto solo da slogan e paure. Troppi padri hanno paura dei ragazzi e finiscono con il soffocarli. Se mi consente una battuta sull’Italia di oggi: questo non è un Paese per giovani. La sua di giovinezza lei l’ha vissuta in anni difficili, dalla vicenda Moro alle stragi degli anni ’80 e ’90, fino a Tangentopoli. Oggi è considerato uno degli scrittori che ha introdotto il genere del giallo d’inchiesta, a metà tra la Storia con la S maiuscola e l’esigenza di costruire il "mito" che fa vivere i romanzi. Come si lega questa scelta di stile alle sue scelte di vita? Mi viene naturale pensare al rapporto fra Storia e storie umane. E siccome sono scrittore, e non giornalista o reporter, e tanto meno storico, non posso non lavorare sul legame fra i fatti e i conflitti che sono destinati a scatenare nei protagonisti. Rubo una citazione a Carlo Lucarelli, secondo il quale l’esigenza di scrivere del presente nasce dalle "domande cattive" che uno si pone e che quasi mai trovano risposta nelle fonti ufficiali. E’ un ragionamento sacrosanto: se abbiamo molti lettori, è perché, evidentemente, queste domande cattive sono largamente condivise. C’è un pensiero, un ideale, che non ha mai tradito e che dalla giovinezza porta ancora con sé? Uno solo? Più passa il tempo e più mi riscopro a pensarla esattamente come quando avevo vent’anni. Ma con la consapevolezza del tempo che è trascorso. E’ un po’ come in quella storiella zen del maestro di spada e del samurai. Dopo anni di durissimo addestramento, il maestro licenzia il discepolo: non hai più bisogno di me perché sei tornato esattamente al momento in cui, per la prima volta, ti sei presentato al mio cospetto. Ciò che prima facevi senza sapere, domani la farai avendo dimenticato di sapere. E l’idea di fondo ricorrente nelle sue opere, il suo file rouge? Un sentimento prevalente di pietà e di ironia. Come reagisce alla immagini del degrado urbano e della "monnezza" di Napoli, uno scrittore, del meridione, tarantino per la precisione, che ha scelto di pubblicare i suoi romanzi su carta riciclata, aderendo ad un’iniziativa di Green Peace? Il fatto di coltivare il perverso, narcisistico piacere di mettere a disposizione dei lettori le cose che scrivo non deve tradursi in un danno per gli alberi! A parte la battuta, siccome un sempre crescente numero di autori si sta convertendo all’uso della carta ecosostenibile, l’uso stesso sta diventando conveniente per le industrie. E gli alberi ci guadagnano. Quanto alla "monnezza", c’è solo da sperare che si trovi una soluzione in tempi rapidi. Crede che un gesto individuale sia significativo per aiutare le grandi cause? E’ un piccolo gesto, ovviamente. I grandi problemi hanno bisogno di grandi risoluzioni, non credo che il piccolo risparmio individuale di energia possa incidere più di tanto. Ha una sua utilità, ma rischia di essere la classica goccia nell’oceano se non si adottano provvedimenti più drastici e utili: siamo pieni di rimedi-tampone, invenzioni dell’ultima ora, alzate di genio frutto dell’emergenza. Non risolvono niente, e a volte aggravano i problemi. Come vede l’Italia di oggi e la crisi di profonda incertezza che serpeggia tra le gente? Come la descriverebbe lo scrittore? E il magistrato? Il magistrato fa il suo lavoro, che è di difendere la legalità, e ha il dovere di farlo rapidamente e nel miglior modo possibile. Lo scrittore può gridare e intervenire quanto gli pare, a patto che continui a scrivere buoni libri. Più che l’incertezza, ciò che mi angoscia dell’Italia di oggi è il diffuso senso di paura: è un tremendo carico da gestire e un eccellente strumento di governo, se sorretto da un’intelligente propaganda. E’ questo che mi spaventa. La nostra paura, e quelli che se ne servono cinicamente. Sara Cascelli