PIERO SORIA, La Stampa 25 marzo 2008, 25 marzo 2008
Botswana. La Stampa 25 marzo 2008. Due elefanti sbucano all’improvviso dalla foresta. L’autista del camion inchioda
Botswana. La Stampa 25 marzo 2008. Due elefanti sbucano all’improvviso dalla foresta. L’autista del camion inchioda. Le grosse cisterne d’acqua stivata in uno dei mille rami delle foci dell’Okawango barcollano paurosamente sui loro supporti già estenuati dalla infinite pozze di pioggia e fango che punteggiano la pista. La strada è un pantano vischioso in cui, senza abbrivio e perizia, è destino finire imprigionati. Non c’è tempo di tirare il fiato: una femmina, acquattata tra le fronde di un’acacia, carica con furia. Deve aver immaginato che il suo compagno, e soprattutto il suo piccolo, fossero in pericolo. Abbassa le zanne, arrotola la proboscide e si scaglia contro la fiancata. Nel lago di mota in cui siamo ormai incagliati non c’è la possibilità di pensare. Davanti, un impatto secco. Il pianale traballa. Poi, di lato, due barriti: è il richiamo dei maschi al sicuro. La femmina allora si volta e cerca di intuire le nostre intenzioni sventolando nervosamente le immense orecchie. Poi, d’incanto, tutto finisce: sguscia altezzosa tra noi e il camion e se ne va. Mentre una nuvola di uomini e donne scendono dalla cabina e ci disincagliano con una lunga catena, sorridendo e ciarlando allegramente come se nulla fosse successo, intorno si affacciano curiose alcune giraffe, una famiglia di impala, una tribù di scimmie urlatrici, due zebre e una lunga fila di facoceri, quasi fossero dei pensionati prodighi di consigli e di considerazioni di fronte a uno scavo o a un cofano alzato. Buon segno: la loro presenza racconta che lì intorno non ci sono leoni o leopardi in agguato. Anche se le numerose impronte a terra dicono che quelle enormi pozzanghere sono il loro abbeveratoio preferito. «Ehi, amico, il Botswana è proprio questo: natura selvaggia accompagnata da un’infinità di sorrisi. Siamo un Paese gaio, gentile. Venato da una rilassante pigrizia riflessiva. Rincuorato da un senso della famiglia così radicato che ci fa discorrere quotidianamente con i nostri antenati per un consiglio, un esempio, una rassicurazione». A parlare è Somolekae Modikwa, figlio di un deputato e di una capo-infermiera (da queste parti ci vuole una laurea), studi e viaggi in Europa e negli Stati Uniti, sceso a Jwaneng, nel Kalahari più profondo, a chiedere (portando doni e promesse secondo tradizione anche nelle élite), la mano della sua fidanzata Ndibo P. Dodzi, reduce da un master a Londra, figlia di allevatori e proprietari terrieri. Continua: «Qui ai vecchi noi non diamo del "tu" e i giovani come me attendono ancora un cenno del padre per poter intervenire in una discussione tra adulti». Si infervora Ndibo: «Cerca di capire: io parlo con te solo perché tu prima hai parlato con me, visto che hai la tua bella età. Non confondere: è rispetto. Non un’ancestrale reverenza per l’uomo bianco. Perché in Botswana un bianco non avrà mai paura di un nero, come invece succede ovunque ci sia stata apartheid. Qui non abbiamo mai avuto di questi problemi. Siamo gente semplice e amiamo le cose semplici, come succede in ogni società agricola. A noi piace cicalare. Sempre e ovunque. Con tutti. Ma il non essere una stirpe guerriera non vuol dire che siamo mosci, remissivi, retrogradi. Anzi». Le birre Saint Louis non si contano più e le sigarette annebbiano il bar col tetto di paglia e giunchi. Le guance di Somolekae sono sempre più rosse di passione: «Ha ragione Ndibo. Rifletti: da noi il tasso di crescita, ovvero la misura della modernità e dello sviluppo, è il più alto del mondo, non solo dell’Africa. E’ un dato di fatto. Forse perché siamo solo un milione e mezzo su una terra sterminata? Non basta. Forse perché non sono mai esistite grandi guerre di clan come in Sud Africa dove la competizione tra etnie è spesso devastante? O forse perché il Botswana ha subito un colonialismo soffice, visto che qui non c’era niente da rubare? Non basta nemmeno questo. La verità è che i diamanti li abbiamo scoperti noi nel 1967, dopo l’indipendenza. Siamo stati cioè gli unici neri a poter gestire i doni della loro terra. E li abbiamo usati bene, destinandone un terzo all’istruzione. E questo è un record irraggiungibile persino nelle vostre civiltà: dallo zero, siamo già arrivati a un’alfabetizzazione del 75 per cento. Un vero miracolo, non trovi?». Quanto orgoglio! Ma viaggi per migliaia e migliaia di chilometri e dappertutto trovi conferme. Dell’affabilità e dello straripante gusto per la chiacchiera, per esempio. I villaggi sono scarsi, immaginate le città. Gaborone compresa: capitale dai ministeri scintillanti di acciaio e cristallo, nient’altro però che pochi immensi alberi alla cui ombra formicola il ritmo agreste della vita, come ci ha insegnato Alexander McSmith nei gialli con la sua straordinaria Lady Detective. Ci sono tuttavia banche ovunque, persino nelle capanne. E sembrano costruite più per la convivialità che per il servizio. Le polverose e sudate code ai bancomat sono infatti lunghissime a qualsiasi ora. E procedono con una lentezza, per noi, esasperante. Per loro invece è gioia, evidente sui volti. E’ l’occasione per incontrarsi sotto un ombrellino che lenisce pioggia o sole. E’ il semplice e rassicurante vedersi. E’ il luogo del racconto dettagliato e ammaliante delle cose. Dall’interpretazione dei sogni o del disegno di una nuvola all’avvenire dei figli. Dalla salute di amici e parenti al pacato, quasi fatalistico, dolore di lutti così vicini e continui da aver segnato una Nazione devastata dall’Aids di un’aspettativa di vita di 37 anni. Il Botswana è anche un grande popolo sempre in cammino: che siano deserti sterminati come il Kalahari o strade assetate di savana o vaghi sentieri tra manciate di capanne di paglia e fango, vedi sempre all’orizzonte il sederone colorato di una signora dalla «corporatura tradizionale» che procede ancheggiando allegramente verso chissà dove, chiacchierando con il cielo, con gli alberi e con le infinite mandrie di asini, capre e vacche che sembrano appena scese dall’Arca per popolare un nuovo paradiso. PIERO SORIA