Repubblica 25 marzo 2008, TIMOTHY GARTON ASH, 25 marzo 2008
IL CORAGGIO DELL´OCCIDENTE
Repubblica 25 marzo 2008.
La scorsa settimana il premier britannico Gordon Brown ha promesso che incontrerà il Dalai Lama in occasione della sua visita in Gran Bretagna in programma per il prossimo mese di maggio. Lo stesso dovrebbero fare tutti gli altri leader dei paesi liberi, ogniqualvolta se ne presenti l´opportunità. Non farlo sarebbe una vergogna per tutti.
E non sarebbe neppure d´aiuto alla Cina. Sono almeno tre gli ordini di difficoltà che incontriamo nel reagire alla tragedia in corso in Tibet. Non sappiamo bene cosa stia realmente accadendo perché le autorità cinesi sono decise a non farcelo scoprire espellendo giornalisti, aumentando l´abituale censura su Internet e raccontando bugie. Ci sentiamo impotenti davanti all´orrore. E dobbiamo bilanciare i profondi sentimenti di solidarietà che nutriamo nei confronti dei tibetani con il nostro interesse ad una evoluzione positiva della Cina. Ingraziarsi Pechino per ottenere vantaggi politici e commerciali a breve termine è spregevole. Non lo è tentare di evitare che le nostre azioni in aiuto dei tibetani ostacolino l´evoluzione della Cina. strategia politica, ed è anche morale.
Ecco la buona ragione per non reagire alla repressione contro i monaci buddisti in Tibet come abbiamo fatto per la repressione dei monaci buddisti in Birmania. No, non è opportuno imporre sanzioni economiche all´intera Cina, come per la Birmania. Né è opportuno boicottare le Olimpiadi di Pechino. La posta in gioco è troppo alta. Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner ha indicato che se la repressione in Cina si inasprirà - non solo in Tibet, ma anche con la persecuzione di dissidenti cinesi come Hu Jia - i leader europei potrebbero non partecipare alla cerimonia di apertura dei Giochi. Forse è giusto minacciarlo, anche se dubito che i ministri degli Esteri dell´Ue appoggeranno un´istanza del genere al vertice della settimana prossima.
Potrebbe essere il caso di chiedere l´invio di osservatori Onu in Tibet, anche se la Cina senza dubbio porrebbe il veto. Altrettanto importante è insistere affinché le autorità cinesi onorino la promessa fatta, e al momento non mantenuta, di garantire ai giornalisti stranieri libertà di movimento in tutta la Cina nella fase preparatoria alle Olimpiadi. (Se non permettono ai reporter di andare in Tibet, se ne deduce che il Tibet non fa parte della Cina).
Ma in fondo sappiamo che nulla impedirà al governo cinese di inasprire la repressione usando le forze armate, eviterà i colpi alla porta alle quattro di mattina, e annullerà il noto apparato di uno stato di polizia. Al momento i tibetani vengono arrestati semplicemente se in possesso di un´immagine del Dalai Lama. E qui sta il problema. Perché il settantaduenne leader politico e spirituale in esilio resta l´unica chiave individuabile per una soluzione pacifica. Stando ai racconti dei viaggiatori egli continua a godere dell´affetto e della fedeltà della maggioranza del suo popolo. Al contempo offre ai leader cinesi una via negoziale verso l´autonomia stile Hong Kong per il Tibet, senza arrivare alla piena indipendenza. Se ragionano sui loro interessi a lungo termine, quella è la via da seguire.
Ma non ragionano. Con l´incoerenza tipica dei regimi repressivi, i leader comunisti cinesi sostengono che il Dalai Lama non conta nulla, è una reliquia feudale, eppure non fanno che parlarne. Continuano a definirlo "separatista", ossia desideroso di separare il Tibet dalla madre patria ottenendone l´indipendenza. Questa settimana abbiamo visto il premier cinese Wen Jiabao, altrimenti misurato, farneticare sull´"incidente" in Tibet, definendolo «organizzato, premeditato, guidato e sobillato dalla cricca del Dalai Lama». Tutto questo, ha detto, dimostra che «quando la cricca del Dalai Lama afferma di non perseguire l´indipendenza bensì il dialogo pacifico non fa che mentire».
Questa affermazione, un ritorno alla peggiore demagogia staliniana, non solo contrasta ma è diametricalmente opposta alla verità, mistifica completamente le cose. Il Dalai Lama continua a ripetere che non mira alla piena indipendenza. Non c´è essere umano al mondo oggi più pubblicamente, coerentemente e inequivocabilmente fedele alla via della non violenza. Ricevendo il Nobel per la pace nel 1989, il Dalai Lama menzionò «il fondatore della moderna tradizione di azione non violenta per il cambiamento, il Mahatma Gandhi» addirittura prima di parlare delle sofferenze del suo popolo. La scorsa settimana ha minacciato di dimettersi da capo politico del governo tibetano in esilio se i suoi seguaci avessero fatto ricorso alla violenza. Non c´è la minima prova che abbia istigato la rivolta in Tibet. Al contrario, il fatto che la rabbia popolare sia sfociata in proteste di piazza, incluse, a quanto pare, alcune violenze ai danni di innocenti cinesi di etnia Hahn e di musulmani locali, indica che almeno alcuni tibetani ne hanno abbastanza della rotta di non violenza su cui il Dalai Lama li ha mantenuti così a lungo.
Quindi i leader cinesi mal interpretano o quanto meno travisano le intenzioni del Dalai Lama. ( interessante chiedersi quanto si tratti di una vera incomprensione e quanto di una deliberata menzogna). Probabilmente sottovalutano anche il suo potere. Come Stalin chiese: «quante divisioni ha il papa?» forse i leader cinesi si chiedono quante ne abbia il Dalai Lama. In questo caso sono miopi proprio come Stalin. Al pari di papa Giovanni Paolo II, il quattordicesimo Dalai Lama possiede, nell´affetto da parte non solo del suo popolo ma di milioni di persone in tutto il mondo, una delle forme più pure di soft power.
Noi da parte nostra tendiamo a sottovalutare l´importanza politica degli atti simbolici come incontrare un leader esiliato o dissidente. I sedicenti realisti lo irridono come puro atto formale, mostrando così di mancare di realismo. Chiunque abbia vissuto l´esperienza di un regime repressivo, sia esso il Sud Africa sotto l´apartheid, la Cecoslovacchia sotto il comunismo di stampo sovietico o la Birmania sotto l´odierno regime dei generali, sa quanto siano importanti per il popolo oppresso gli atti di riconoscimento simbolico, nei confronti di un Nelson Mandela piuttosto che di un Vaclav Havel o di una Aung San Suu Kyi. Non a caso il sito web del governo tibetano in esilio si premura di elencare tutti i «leader mondiali che sua santità il Dalai Lama ha incontrato», tra cui, negli ultimi anni, i primi ministri di Canada, Australia, Ungheria e Belgio, il presidente degli Stati Uniti, e il cancelliere tedesco Angela Merkel.
Le autorità cinesi sanno che questi incontri hanno un peso, altrimenti non spenderebbero tante energie nel tentativo di impedirli. Sono i leader cinesi i veri "separatisti" nel momento in cui cercano di imporre la strategia del divide et impera sui paesi liberi in competizione per aggiudicarsi i loro favori economici. Non ho dubbi che è stata questa la ragione della titubanza del premier britannico ad impegnarsi (come ha fatto poi sotto pressione) a incontrare il leader tibetano, e non una più ampia preoccupazione di carattere morale o strategico. Quindi i ministri degli esteri dell´Ue in occasione del vertice informale di questa settimana dovrebbero stabilire di concerto che tutti i capi di governo europei per principio riceveranno il Dalai Lama in visita e lo stesso dovrebbe valere per ogni altro paese libero, dall´Australia al Brasile.
Stabilendo questo principio invieremo tre importanti messaggi a Pechino: che le democrazie non si lasciano separare tanto facilmente, che il Dalai Lama rappresenta davvero, oserei dire incarna, la via della non violenza e del negoziato e che vogliamo impegnarci a fondo con una Cina in via di modernizzazione e festeggiare una meravigliosa olimpiade quest´estate, ma non sui cadaveri dei monaci buddisti.
TIMOTHY GARTON ASH