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 2008  marzo 25 Martedì calendario

I CAPITALI IN PARADISO

Corriere della Sera 25 marzo 2008.
Non passa ormai giorno senza dover leggere sulla stampa il nome di questo o quel personaggio famoso titolare di conti «segreti» in Liechtenstein, accompagnato naturalmente dalla consueta litania dei Robespierre nostrani che, senza che si sia ancora accertata l’illegittimità di questi conti e l’illecita provenienza dei fondi in essi confluiti, chiedono le punizioni più severe per codesti «mascalzoni». Pare si siano già mosse diverse procure della Repubblica e addirittura anche la procura nazionale antimafia.
Tuttavia nessuno, tranne a quanto mi consta Piero Ostellino sul Corriere, ha rilevato il vizio di fondo della vicenda. Acquistare, come pare abbiano fatto le autorità tedesche, un bene provento di furto, addirittura dall’autore dello stesso, integra il delitto di ricettazione. Ritiene legittimo che un cittadino, famoso o meno, debba esser messo alla gogna sulla base di informazioni illecitamente trafugate e acquistate da una persona che, più che ricompensata, andrebbe processata per il delitto da lei commesso? E soprattutto, ritiene sia legittimo che uno Stato utilizzi informazioni che sono oggettivamente di provenienza illecita e criminosa per perseguire i suoi cittadini? Nel caso ciò avvenisse ci troveremmo a mio parere di fronte a una grave violazione dei diritti più elementari dell’uomo.
Pietro Ratti
pietroratti@hotmail.com Caro Ratti,
Esistono effettivamente in questa faccenda almeno due fattori inquietanti. In primo luogo le informazioni sui conti correnti del Liechtenstein sono state offerte in vendita da un impiegato fellone (così si chiamavano i dipendenti che tradiscono il loro rapporto fiduciario con l’azienda per cui lavorano) e comperati dai servizi d’intelligence tedeschi per la somma, a quanto pare, di 6 milioni di euro. Le informazioni erano state offerte per una somma inferiore ai servizi britannici che avevano, tuttavia, esitato. Che un organismo di spionaggio acquisti informazioni, non è una sorpresa. I servizi sono nati per fare segretamente ciò che non sarebbe permesso fare alla luce del sole. Ma l’acquisto di una notizia dovrebbe servire ad avviare indagini che permettano di acquisire prove utilizzabili in giudizio. Non sembra che le cose, in questo caso, siano andate così. Il Bnd (Bundes Nachrichten Dienst) ha passato le informazioni al governo che ha ritenuto opportuno agire senza attendere ulteriori indagini. Non so che cosa farebbe il giudice tedesco se il contribuente rifiutasse di pagare e la questione finisse in tribunale. Spero che respinga l’azione giudiziaria e costringa il governo di Berlino a pagare le spese di processo. Occorre combattere l’evasione fiscale, ma non conferendo allo Stato il diritto di mettere arbitrariamente gli occhi nei nostri conti bancari sulla base di informazioni raccolte da un delatore di professione.
Il secondo fattore inquietante è la reazione giustizialista di una parte della pubblica opinione italiana. Molti hanno accusato il governo di non avere imitato i tedeschi e di non essersi sufficientemente adoperato per ottenere subito l’elenco dei conti italiani. Molti altri hanno dato la sensazione di non avere alcun dubbio sulla esistenza di eminenti nomi italiani nella lista dei correntisti. Vi sono purtroppo circostanze, caro Ratti, in cui il popolo assetato di giustizia dimentica che è bene non permettere ai governi di fare ai cattivi ciò che domani potrebbero fare anche ai buoni. Persino nei Paesi di vecchia democrazia, il potere esecutivo ha la cattiva abitudine di estendere le proprie prerogative e di restringere il cerchio delle libertà private.
Dopo queste premesse, tuttavia, occorre ricordare che esiste anche una pericolosa anomalia. L’Unione europea è una istituzione complessivamente liberale, fondata per quanto possibile sulle regole del mercato. Ma vi sono Paesi, al suo interno, che non rinunciano ad attrarre capitali con regole alquanto diverse da quelle che valgono per il resto del continente. Se l’acquisto di informazioni rubate, come lei osserva, è ricettazione, la complicità in evasione fiscale dovrebbe essere considerata, anch’essa, un reato. Aggiunga a questo, caro Ratti, che là dove si rifugiano i capitali di un manager desideroso di evadere il fisco, possono trovare alloggio anche i denari delle grandi organizzazioni criminali, come ha ricordato Victor Uckmar su questa pagina negli scorsi giorni.
Sergio Romano