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 2008  marzo 25 Martedì calendario

Dopo essersi tanto sforzati di spiegare i tumulti di Lhasa, non pochi commentatori occidentali si sono convinti che non occorre in fondo sforzarsi più di tanto

Dopo essersi tanto sforzati di spiegare i tumulti di Lhasa, non pochi commentatori occidentali si sono convinti che non occorre in fondo sforzarsi più di tanto. In che modo dipingere i tibetani, se non come l’ultimo di una lunga serie di popoli coraggiosi e decisi a ribellarsi contro il totalitarismo comunista? I puntelli retorici della Guerra Fredda sono sempre a portata di mano. Il Wall Street Journal ha sentenziato che il nodo principale è la libertà religiosa. Pazienza se i manifestanti di Lhasa si sono scagliati contro gli immigrati han (l’etnia maggioritaria cinese) e non contro lo Stato cinese, o se le autorità di Pechino hanno sinora dato prova di relativa sobrietà, facendo un prudente passo indietro rispetto agli umori del ceto medio (in larghissima parte ostile alla minoranza etnica tibetana). Quanto alla libertà religiosa, poi, il popolo tibetano non ne ha mai goduto come in questi ultimi anni sin dalla rivoluzione culturale. Smaniosi di calamitare sempre più turisti in Tibet, le autorità cinesi hanno contribuito alla ricostruzione di buona parte dei monasteri distrutti dalle Guardie Rosse negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, trasformandoli in nuove Disneyland del buddhismo. Il Tibet e il buddhismo tibetano hanno persino ispirato una «controcultura» tra i cinesi oppressi dalla nuova ricchezza. A dirla tutta, l’economia tibetana ha superato il tasso di crescita medio della Cina, grazie ai generosi finanziamenti di Pechino e al milione e passa di turisti che ogni anno si recano in Tibet. Lo sconfinato entroterra rurale dà pochi segni di tale sviluppo, ma Lhasa, con i suoi shopping mall, le costruzioni in vetro e acciaio zeppe di uffici, i centri benessere e i saloni di massaggi, somiglia a una città della provincia cinese in pieno rigoglio. Pechino è fiduciosa che il nuovo collegamento ferroviario con Lhasa, grazie al quale i costi di estrazione dell’uranio e del rame tibetano si riducono notevolmente, possa favorire un kuayueshi fazhan (il modello di sviluppo «a salto di rana») sul piano economico, sociale e culturale. indubbio che il Tibet sia agganciato al processo di modernizzazione più rapido e straordinario della Storia: lo sviluppo del Dragone sul modello del capitalismo dei consumi, osannato dal Wall Street Journal e altri media finanziari in Occidente che hanno intravisto nella Cina il Santo Graal dei prodotti a prezzo stracciato e dei profitti societari astronomici. Per quale ragione, dunque, essi aspirano all’indipendenza? Come mai, per dirla con l’Economist, «anni di rapida crescita economica che, negli auspici della Cina, avrebbero dovuto smorzare le istanze separatiste, hanno invece dato l’esito opposto »? In primo luogo, i cinesi non si sono curati di interpellare i tibetani quanto al modello di crescita economica da essi auspicato. A tale riguardo, quanto meno, l’impotenza politica dei tibetani non si discosta molto da quella delle centinaia di milioni di poveri cinesi strappati alle loro radici dal patto faustiano tra il Dragone e il capitalismo dei consumi. (...) Va anche detto, tuttavia, che l’ordalia tibetana andava annunciandosi da tempo. Prima che la nuova linea ferroviaria desse un eccezionale impulso all’immigrazione han, la popolazione cinese «fluttuante» composta da lavoratori immigrati, criminali, avventurieri e prostitute ha rappresentato una maggioranza soverchiante in città tibetane come Lhasa, Gyantse e Shigatse. La metà della popolazione di Lhasa, in particolare, è composta da cinesi han, proprietari della maggior parte dei negozi e attività commerciali della città. Favorendo decisamente le aree urbane a scapito di quelle rurali, lo sviluppo secondo il modello cinese non può che esacerbare la sperequazione economica e mettere a repentaglio le tradizioni, tra cui lo stile di vita delle popolazioni nomadi. Non sorprende, pertanto, che la scommessa post-Tienanmen di Deng Xiaoping (per cui gli individui, drogati dalla ricchezza, avrebbero cessato di invocare il cambiamento politico) sia fallita in Tibet. (...) La crescita della Cina, insistono i leader di Pechino, avverrà «in modo pacifico». Non è detto che non abbiano ragione, se il Paese saprà rinunciare alle invasioni e occupazioni cui fece ricorso il Giappone nel tentativo di modernizzarsi e tener testa alle potenze imperiali dell’Occidente. abbastanza evidente, tuttavia, che la Cina ha in parte dispiegato – ieri nello Xinjiang e oggi in Tibet – gli stessi strumenti del colonialismo «interno» adottati dagli Stati Uniti durante l’espansione verso Ovest. Sospinta da un’insaziabile sete globale di mercati di consumo e risorse naturali, la Cina non ha fatto molto per placare i timori che i tibetani diventino ben presto gli emuli degli indiani d’America che languiscono nelle riserve. (...) L’aspetto più sorprendente dell’esplosione della rabbia tibetana, in realtà, è che non sia avvenuta prima. Le cronache televisive di tibetani intenti ad aggredire gli immigrati han stanno ora rinfocolando il nazionalismo del ceto medio nelle città più ricche della Cina costiera. I cinesi benestanti sostengono la dura repressione degli «ingrati» tibetani. (...) Tuttavia, i tibetani hanno oramai capito di avere dinanzi a sé una modernità capitalista più distruttiva nei confronti della tradizione, e più spietatamente profittatrice delle terre sacre su cui essi vivono, di qualsiasi altro nemico che abbiano incontrato nella loro tormentata storia. Autore di «La tentazione dell’Occidente. India, Pakistan e dintorni: come essere moderni» (Guanda 2007). 5 Guardian News & Media Traduzione di Enrico Del Sero