Milano Finanza 21 marzo 2008, Gabriele Capolino, 21 marzo 2008
Cronache del dopobomba. Milano Finanza 21 marzo 2008. ’Sono più di 20 anni che faccio questo mestiere, ma una cosa così non l’avevo mai vista”
Cronache del dopobomba. Milano Finanza 21 marzo 2008. ’Sono più di 20 anni che faccio questo mestiere, ma una cosa così non l’avevo mai vista”. – Il manuale del buon gestore ha cambiato tutte le regole, e siamo tutti impreparati”. ”Le aziende farebbero bene a tirare in qualche modo le linee di credito loro accordate e non ancora utilizzate, perché tra poco potrebbero non averle più”. ”Qui a Lugano passiamo metà del tempo a convincere i clienti a non portare via i soldi dal loro conto corrente, quasi come se fossimo diventati una repubblica delle banane”. Frasi colte nel corso di telefonate concitate, con grida di sottofondo del tipo: ”Stanno intervenendo sulle valute! Guarda lo yen!”. ”Occhio, sono solo ricoperture!”. Cronache del dopobomba, una bomba intelligente, a lunghissima gittata, che ha fatto danni ingenti all’unica chiave di volta del mercato finanziario: la fiducia. ”Le banche non si fidano più una dell’altra”. ”Oggi non basta pensare se un titolo azionario è a buon prezzo o caro, occorre fermarsi e chiedersi se chi te lo vende o te lo compra esisterà ancora tra qualche giorno”. Difficile raccapezzarsi, perché le macerie sono ancora fumanti e, quello che è peggio, non si sa se vi saranno nuovi bombardamenti in arrivo. Però qualche ragionamento si può abbozzare, per capire come andrà a finire. Fine di un’era. E’ quella del denaro a buon mercato. Non è un’ondata passeggera, come nelle crisi precedenti: allora le situazioni erano comprensibili e circoscritte, per cui le soluzioni erano più facilmente delineabili. Quando nel 1998 il Long term capital management (Ltcm), il super hedge fund di John Meriwether (che si avvaleva di premi Nobel come consulenti) saltò per aria, Alan Greenspan, allora presidente della Fed, chiuse in una stanza i cinque maggiori banchieri del paese e con loro organizzò il salvataggio delle posizioni del fondo e garantì regolarità alle borse (Meriwether perde il pelo ma non il vizio, visto che un suo nuovo hedge fund che investe nel reddito fisso ha già perso il 24%). Oggi tutto il mondo è un Ltcm, nel senso che non si contano le istituzioni che non sono in grado di smobilizzare le proprie posizioni investite in stumenti complicati e illiquidi come crediti subprime, crediti ipotecari anche apparentemente di buon livello, derivati delle fattezze più strane ecc. La Fed lo ha capito, ma ha mandato chiaro e forte il messaggio al mercato: non lasceremo saltare per aria le banche americane. Un messaggio molto poco liberista, che fa il paio con il salvataggio statale dell’inglese Nothern Rock. Un altro segnale che le regole di prima non valgono più, anche se salvare le banche americane significa per Ben Bernanke salvare i loro creditori, non i soci. E’ il caso di Bear Stearns, la quinta investment bank americana praticamente espropriata per due lenticchie ai suoi azionisti e affidata alla JP Morgan con un finanziamento protettivo di 30 miliardi di dollari garantito della Fed stessa. Se non l’avesse fatto, lunedì 17 i mercati rischiavano di non aprire, vista l’importanza della Bear Stearns come controparte nel mercato del reddito fisso e dei derivati. Salvare le banche significa quindi salvare i mercati regolamentati, che altrimenti cadrebbero in un panico da cui ben diffilmente si torna indietro. Ma anche la potentissima Fed non ha risorse illimitate: oltre ad abbassare i tassi, finora ha impiegato ben 436 miliardi di dollari nei suoi interventi, il che significa circa la metà del suo portafoglio complessivo, che vale 825 miliardi di dollari investiti in titoli di stato e obbligazioni varie. Se la crisi si fermasse qui, e le altre grandi investment americane, Lehman Brothers, Morgan Stanley, Goldman Sachs ecc., mostrassero di tenere botta, bene. Ma che cosa succederebbe se, come molti prevedono, i mutui subprime siano solo la prima stazione di una Via Crucis ancora lunga, che comprende il non ritorno di finanziamenti per il terziario immobiliare o per le auto o dei fidi concessi per le carte di credito? Questo è il motivo per cui i mercati, soprattutto quello borsistico, non credono che la Fed sia del tutto riuscita nel suo intento. I mercati borsistici, in questo momento, sono quelli più liquidi e meno penalizzati rispetto a quello del reddito fisso o dei derivati, per cui tutti i nervosismi si stanno scaricando lì. La crisi si estenderà all’economia? L’altra domanda che tutti si pongono in Europa è: la recessione americana arriverà anche qui? Guardando9 alle stime dell’Eurozona, apparentemente il clima è ancora sereno: non ci sono allarmi del tipo Bear Stearns, le condizioni del credito registrano un forte raffreddamento ma non di più, le cifre sulla disoccupazione sono buone (in Italia sono ai minimi dal 1993), la Banca centrale europea non ha mosso i tassi, ma a parole dice di affiancare la Fed nella lotta al terrore finanziario. Inoltre, dai nuovi colossi Brasile, Cina, India non arrivano forti segnali di pausa di crescita. Ma è la quiete prima della tempesta? Sul mercato ddel credito gli effetti vari, secondo alcuni banchieri, si sentiranno tra tre-sei mesi: il denaro è divenuto merce rara e si finanzieranno solo le società e i progetti più solidi. Secondo alcuni calcoli riportati dal Financial Times, il conto dei subprime (200 miliardi di crediti cancellati, ma è solo una stima) equivale per le grandi banche internazionali a una diminuzione del proprio capitale del 12% circa. Delle due l’una: o fanno aumenti di capitale (e i fondi sovrani giocano un ruolo importante) oppure dovranno ridurre i crediti concessi (perché si ha meno capitale per garantirli). Se non verranno apportati nuovi capitali, dovranno essere richiamati crediti per ben 2.300 miliardi di dollari (più o meno l’equivalente del pil italiano). L’euro a 1,6 dollari è un altro problema, e se le banche centrali (Fed esclusa) non decideranno di intervenire, saranno dolori, anche se l’Eurozona è il primo mercato in termini di esportazione per tutti i paesi che vi partecipano. Infine, c’è l’aumento dei prezzi delle materie prime, grano e petrolio in primis, che sta comportando, come ha sottolineato Mervyn king, governatore della Bank of England, ”una genuina riduzione del nostro livello di benessere”, a maggior ragione per gli italiani che non hanno fonti energetiche alternative. Insomma, tutti elementi che portano a stime di crescita mondiali più basse ma che forse sono ancora ottimistiche. Chi rischia l’estinzione. I dinosauri da padroni del mondo finirono per estinguersi in poco tempo in seguito a un asteroide che sconvolse il clima globale. Due dinosauri finanziari rischiano di fare la stessa fine. Gli hedge fund e il private equità. Sia l’uno sia l’altro sono figli dello stesso fenomeno, il denaro abbondantee a buon mercato degli ultimi dieci anni. Questo denaro abbondante ha loro permesso ampi finanziamenti, con capacità di manovra moltiplicata per dieci rispetto ai mezzi propri (per 31 nel caso recente del Carlyle Capital hedge fund saltato la settimana scorsa). E grazie a questa leva gli hedge sono stati i padroni incontrastati dei mercati finanziari. Ora la leva si è spezzata, e non passa giorno che un hedge salti per aria perché la propria banca chiede il rientro dei finanziamenti concessi o perché si presentano tutti insieme i clienti per riscattare i soldi. La stessa Bear Stearns ha dovuto alzare bandiera bianca anche per colpa degli hedge fund che gestiva. Con le difficoltà sono sorti anche dubbi sull’effettiva magia di questi apprendisti stregoni, le cui scelte sono in molti casi dettate in primis dalla struttura delle commissioni richieste. Questo conflitto di interessi tra gestori e clienti ha determinato scelte di investimento vincenti nei primi anni di vita del fondo, ma che nel lungo periodo postulano la perdita dei denari del cliente. Lo stesso dicasi per i private equity. Grazie alla grande leva finanziaria e ai forti risultati iniziali, i fondi privati si sono sostituiti ai banchieri d’affari megli ultimi anni, comprando e vendendo direttamente industrie, banche, assicurazioni. Ora la leva non c’è più. Chi ha raccolto soldi e non li ha ancora spesi tutti ha un vantaggio, di breve periodo, rispetto agli altri. Chi ha impostato acquisizioni basate su un basso costo del denaro dovrà accontentarsi di ritorni sull’investimento molto minori se non addirittura negativi. E le aziende comprate e rivendute? Manca ancora una statistica sufficientemente lunga per verificare la correlazione tra l’intervento dei private equità e lo stato dell’azienda prima e dopo la loro uscita. Ma a sentire alcuni protagonisti, ciò che resta in molti casi è un’azienda prosciugata. Immolata all’altare dei nuovi padroni del mondo, come solo pochi mesi fa tutti definivano i private equità. Sopravviveranno all’asteroide? Gabriele Capolino