Il Sole 24 ore 18 marzo 2008, Marco Magrini, 18 marzo 2008
Norvegia, sua maestà il Fondo. Il Sole 24 ore 18 marzo 2008. Martin Skancke è appena tornato da Washington, dove ha testimoniato di fronte a una commissione del Congresso
Norvegia, sua maestà il Fondo. Il Sole 24 ore 18 marzo 2008. Martin Skancke è appena tornato da Washington, dove ha testimoniato di fronte a una commissione del Congresso. Il dilagare dei fondi sovrani – potenti entità finanziarie che fanno capo a dei governi, non sempre democraticamente eletti – ha provocato qualche brivido fra Washington e Wall Street, dopo che la Cina è entrata nel capitale della Morgan Stanley e dell’oggi moribonda Bear Sterns; il Kuwait e Singapore sono diventati azionisti di rilievo della Merrill Lynch; Abu Dhabi ha salvato la Citibank. «Al termine del mio discorso ho ricevuto grandi apprezzamenti», racconta Skancke che, all’apparenza ancor più giovane dei suoi 42 anni, è direttore generale del Ministero delle Finanze e, di fatto, responsabile del fondo sovrano del Regno di Norvegia. c«Ho spiegato che il fondo ha attività per 2mila miliardi di corone, circa 375 miliardi di dollari, un terzo dei quali investiti in America, in azioni e in bond. E, dato che siamo investitori di lungo periodo, ho dimostrato che esercitiamo una funzione di stabilizzazione dei mercati». Motivazioni eloquenti. Ma ce n’è una in più, a sostenere l’applauso dei congressmen al Paese scandinavo. In questi giorni, l’aeroporto e le stazioni ferroviarie di Oslo sono tappezzate da un’altrettanto eloquente pubblicità dei programmi televisivi della Cnn, con su scritto, in inglese: «L’America compra un sesto del petrolio norvegese. Le elezioni americane riguardano anche te». Il mondo occidentale avrebbe un sogno nel cassetto: una Norvegia al posto di un’Arabia Saudita. Un oceano di petrolio in mani democratiche. Ma è un sogno fatuo. Il petrolio estratto al largo di queste gelide coste ha cominciato a scemare dopo il 2001, quando ha toccato il picco dei 3,4 milioni di barili al giorno, per poi scendere a 2,7 cinque anni dopo. Lo scorso settembre era già a quota 2,1 milioni di barili. «Il declino non riguarda il gas, la cui produzione sta ancora crescendo – risponde Skancke – ma questo è esattamente il motivo per il quale, nel 1990, fu deciso di istituire il nostro Fondo Petrolifero: per non sperperare i volatili proventi del greggio e, al tempo stesso, per risparmiare il denaro che servirà a far fronte agli impegni finanziari nei confronti di una popolazione che sta invecchiando». Una lungimiranza che oggi vale – ammesso che l’attuale nervosismo dei mercati non produca altre brutte sorprese – circa 250 miliardi di euro. L’avventura comincia proprio come un film americano. Siamo nel 1969. Dopo tre anni di ricerche infruttuose sui fondali del Mare del Nord, numerose compagnie si sono già ritirate dalle acque territoriali norvegesi. Solo la Phillips Petroleum ci crede ancora. Ma, dopo ulteriori insuccessi, decide di fare l’ultimo buco. E – ovviamente, come si converrebbe a Hollywood – scopre Ekofisk, a quei tempi giudicato fra i dieci giacimenti più grandi del mondo. «Questo era un Paese ricco e moderno già prima di allora – commenta ystein Noreng, professore alla Business School di Oslo – ma, nell’arco di una sola generazione, il petrolio ha fatto la differenza». impressionante, vedere quanto è cambiata Oslo – i trasporti, i servizi, l’architettura, ma anche la vita sociale – soltanto negli ultimi vent’anni. Questa è la storia di un bacio della fortuna, ma anche una storia di lungimiranza. La Norvegia, che è portabandiera della neutralità ma siede nella Nato, che partecipa all’Area economica europea ma ha detto per due volte no all’Unione Europea, invece di lasciare il campo libero alle major angloamericane, nel lontano 1972 ha fondato dal nulla la Statoil (oggi StatoilHydro), che è la più grande compagnia al mondo nelle operazioni offshore, con attività in tredici Paesi. Quotata a Oslo e Wall Street, è ancora controllata al 64% dal Governo. Quanto alle major, che hanno trasferito tecnologie ed esperienze, sono state tenute a debita distanza: fra la tassa sulle imprese (28%) e la tassa speciale sul petrolio (50%) vengono chiamate a corrispondere un elevato premio, per il greggio che pescano sotto l’oceano. «Quando nel ’75 la tassa speciale venne sensibilmente ritoccata, la Chevron se ne andò», sintetizza Noreng. «Ma adesso è tornata». Di fronte a un fiume di denaro che rischia di surriscaldare un’economia di appena 4,7 milioni di persone, lo Stortinget – il Parlamento unicamerale di Norvegia – nel 1990 approva in quattro e quattr’otto la legge che istituisce il Fondo Petrolifero, oggi ribattezzato «Fondo Pensione Governativo - Globale», perché investe solo fuori dai confini nazionali «per diversificare il rischio», come spiega Skancke. Il secondo fondo sovrano del mondo (il primo è quello di Abu Dhabi) è un monumento alla diversificazione. «Il 60% è investito sul mercato obbligazionario e il restante 40 sull’azionario», spiega il direttore generale delle Finanze. In entrambi i casi, un terzo del denaro è riversato in America e si porta sulle spalle tutti i dolori del dollaro. L’Europa pesa per la metà nell’azionario, ma per il 60% sul reddito fisso. In totale, il fondo possiede azioni di 7mila società di mezzo mondo e sottoscrive 7.500 obbligazioni. «Il tutto è perfettamente trasparente e teniamo continuamente sott’occhio anche il profilo etico degli investimenti», ricorda Skancke. Colossi americani come Raytheon o Wal-Mart sono stati esclusi dal portafoglio del Regno, per via delle implicazioni militari e delle condizioni dei lavoratori. Guai a dimenticare che la Norvegia è stato il primo Paese al mondo a far entrare le donne in Parlamento e che, nella classifica delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano, siede da tempo al primo posto. Secondo i calcoli di Skancke, il fondo – operativamente gestito dalla Norges Bank, la banca centrale – nel 2011 dovrebbe valere circa 3.500 miliardi di corone. «Nel giro di vent’anni – osserva – rappresenterà il 200%, o forse il 250%, del prodotto interno lordo». Sempre per legge, la spesa pubblica preleva dal fondo soltanto il 4% all’anno. «Una quota troppo rigida e modesta», contesta Ketil Solvik-Olsen, dinamico deputato 36enne del Fremskrittspartiet, principale partito di opposizione alla maggioranza «rosso-verde» capitanata dai laburisti. «Nel nord del Paese abbiamo ancora delle strade disastrate. Perché non investire un po’ di più sulle infrastrutture competitive? Il mercato azionario può anche crollare, ma le strade restano». Al momento il mercato non crolla, però neppure si sente troppo bene. Da quando, nel 1998, il fondo sovrano di Norvegia ha aggiunto i titoli azionari nel suo panorama d’investimenti, ha imboccato una strada più rischiosa. Ha fatto in tempo a raccogliere i frutti del boom di Borsa del 1999, ma nel 2001 ha perso il 15% e nel 2002 più del 20. «Siamo investitori di lunghissimo periodo – risponde Skancke – quando i mercati scendono, noi compriamo. E ci difendiamo con la diversificazione: abbiamo migliaia di piccole partecipazioni in aziende di 40 Paesi. Ecco perché esercitiamo una funzione stabilizzatrice sul mercato». Il mondo occidentale avrebbe un altro sogno nel cassetto: che tutti i fondi sovrani fossero norvegesi. Ma è un sogno fatuo anche quello. Così, mentre a Oslo le donne del Partito socialista protestano perché il fondo possiede una quota nella casa editrice di Playboy, il Regno Unito si morde le mani: se Londra avesse fatto come Oslo, oggi avrebbe una dote di 450 miliardi di sterline, «come i fondi di Russia, Kuwait e Qatar messi insieme», calcola John Hawksworth, capoeconomista di PricewaterhouseCoopers. Eppure – scriveva ieri la Associated Press – sul mercato si sta insinuando il dubbio che i fondi sovrani dei Paesi petroliferi stiano contribuendo alla spaventosa volatilità dei prezzi del greggio. Come operino i fondi di Abu Dhabi e di Singapore, è un mistero. Per certo, sappiamo solo che, dal 2006, anche il trasparentissimo Fondo sovrano di Norvegia ha cominciato a fare operazioni sulle materie prime. Resta il fatto che la lungimiranza è una bella dote, per un investitore. Se poi l’investitore è un Paese civile e democratico, come sanno i cittadini norvegesi e i congressmen americani, può essere addirittura una benedizione. In fondo in fondo. Marco Magrini