Il Messaggero 16 marzo 2008, CARLO JEAN, 16 marzo 2008
I muscoli di Pechino. Il Messaggero 16 marzo 2008. I DISORDINI scoppiati in Tibet hanno avuto e avranno ancora una grande risonanza sui media e nelle Ong, ma una molto minore nei governi
I muscoli di Pechino. Il Messaggero 16 marzo 2008. I DISORDINI scoppiati in Tibet hanno avuto e avranno ancora una grande risonanza sui media e nelle Ong, ma una molto minore nei governi. Neppure gli Usa possono indurre la Cina a moderare la repressione della rivolta. Il boicottaggio dei Giochi Olimpici, che si svolgeranno a Pechino nel prossimo agosto, non risolverebbe nulla. Sarebbe solo un atto simbolico che umilierebbe la Cina, che tanto ha puntato sul successo dei Giochi. Il loro boicottaggio per motivi politici o per sancire violazioni dei diritti umani come già taluni vorrebbero per condannare l’ambiguo comportamento cinese nel Darfur segnerebbe la completa politicizzazione dello sport. L’esclusione dai Giochi Olimpici di tutti gli Stati che hanno qualche ”magagna” creerebbe solo tensioni e accuse reciproche. Bene ha fatto il ministro degli Esteri ”in pectore” dell’Ue Javier Solana a dichiarare che comunque presenzierà all’inaugurazione dei Giochi. Lasciamo da parte le simpatie per il popolo tibetano. Il Dalai Lama è l’unico leader della resistenza nazionale tibetana. Lo è divenuto dopo la scomparsa dell’altro capo buddista il Panchen Lama capo dei cosiddetti ”monasteri rossi”. Tale nome deriva dal colore del berretto indossato dai loro monaci (quelli che fanno capo al Dalai Lama ne portano invece uno giallo) e non perché dopo la rivolta tibetana del 1959 e la fuga in India del Dalai Lama si erano accordati con Pechino. Il Tibet era stato una provincia cinese dal 1720 e faceva parte della cintura di sicurezza esterna del Celeste Impero, con la Manciuria, la Mongolia Interna e il Sinkiang, regioni che conoscono tutte fermenti autonomistici. però l’unica regione di tale fascia-cuscinetto che non ha una popolazione a maggioranza cinese. Inoltre, il clero buddista gode di una grande autorità morale e costituisce in Tibet una potente forza dell’identità nazionale. Queste due condizioni lo fanno teatro di rivolte particolarmente temute da Pechino. Infine, il prestigio personale del Dalai Lama fa sì che le vicende tibetane vengano amplificate internazionalmente. Il buddismo, nelle sue varie forme, marca molte società asiatiche. I monasteri sono stati da sempre potenze politiche ed economiche. Il clero si identifica con il nazionalismo. Questo lo rende naturalmente un contropotere. Lo si è visto recentemente in Birmania/Myanmar. Lì le rivolte sono state però molto diverse da quelle del Tibet. Esso vuole l’indipendenza da Pechino e il ricongiungimento delle sue province settentrionali e orientali, distaccate da Lhasa ed unite a regioni cinesi. In Birmania/Myanmar, le proteste erano invece contro l’autoritarismo e la corruzione del governo militare nazionale. Il Tibet è isolato. Nella rivolta del 1959 quella che provocò la fuga in India del Dalai Lama New Delhi appoggiava i tibetani, anche perché era contrapposta a Pechino nelle dispute per il confine, che poi portarono nel 1962 al conflitto armato fra i due giganti asiatici. Oggi le cose sono cambiate. L’India non intende contrapporsi a Pechino per un problema che ritiene trascurabile. La polizia indiana ha disperso qualche centinaia di manifestanti che volevano raggiungere Lhasa per appoggiare la rivolta anti-cinese. Anche questa volta come nel 1989, quando le proteste degenerarono in una vera e propria insurrezione, duramente repressa dall’attuale presidente cinese Hu Jintao, allora governatore del Tibet la rivolta ha avuto origine dai monasteri buddisti. Come allora, si è dimostrata anche la capacità di mobilitazione delle Ong umanitarie, ma anche la loro impotenza, allorquando i governi ritengano che siano in gioco loro interessi importanti. Le dimostrazioni in Tibet potrebbero anche divenire molto violente e degenerare in un’insurrezione, che verrebbe repressa come lo sono state le precedenti. I resoconti che se ne hanno sono contraddittori. Lo dimostrano le notizie sul numero delle vittime: secondo il governo tibetano in esilio, sarebbero già cento; secondo i cinesi, si limiterebbero a due. Non è pensabile che Pechino possa cedere, non solo sull’indipendenza, ma neppure su una completa autonomia del Tibet. Sarebbe troppo pericoloso anche per la questione di Taiwan, tuttora aperta. Il tentativo di sfruttare l’attenzione internazionale sulla Cina per i Giochi Olimpici non può portare ad alcun risultato. A parte ogni altra considerazione, Pechino è ben consapevole di quanto sia importante per il resto del mondo, soprattutto in questo periodo in cui la ”locomotiva” economica americana ”perde colpi”. La rivolta tibetana sarà repressa, nell’indifferenza del resto del mondo. Tutt’al più sarà sostenuta da condanne verbali e da cortei di protesta. Ma è probabile che l’Occidente si limiti a sommesse ed imbarazzate raccomandazioni, perché la repressione non sia troppo pesante e, soprattutto, venga conclusa in fretta, per poterci mettere una pietra sopra. CARLO JEAN