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 2008  marzo 16 Domenica calendario

Ho abbattuto io il Piccolo principe. La Stampa 16 marzo 2008. L’estate del 1944 era già, per la sgretolata Luftwaffe, il tempo della disperazione

Ho abbattuto io il Piccolo principe. La Stampa 16 marzo 2008. L’estate del 1944 era già, per la sgretolata Luftwaffe, il tempo della disperazione. Gli aerei erano buoni, forse migliori di quelli con cui aveva tenuto il dominio dei cieli nei tempi della Blitzkrieg e delle wagneriane picchiate degli Stukas, a sirene spiegate. Memorie ormai di pochi veterani, sfuggiti al macello. Il problema dei nuovi caccia era insolubile: erano troppo pochi. Gli americani spuntavano a stormi: squadriglie, armate intere, a migliaia; sembrava che il fatto di abbatterli li moltiplicasse. E poi al loro fianco gli inglesi, i canadesi, i francesi gollisti. Così si scivolava indietro, inesorabilmente, in terra e in cielo. I piloti sapevano che sotto di loro, schiacciati e straziati dalle bombe nemiche, soldati e civili tedeschi li bestemmiavano e chiedevano con rabbia dove era finita l’arma invincibile del fanfaroneggiante camerata Goering. Ci si batteva senza illusioni, lanciando stanchi ruggiti, eroicamente: brutto segno, perché questo talento emerge soltanto negli eserciti sconfitti. I vincitori ne fanno a meno: vincono. Il 31 luglio 1944 Horst Rippert pattugliava ad alta quota con il suo Messerschmitt il cielo sopra Tolone. Caccia solitaria di un cecchino, in attesa di qualche nemico isolato o distratto. Correvano allarmi insistenti, gli alleati stavano per aprire, dopo la Normandia, un secondo fronte sbarcando in Provenza. Infatti da alcune settimane si infittivano gli incontri con velivoli nemici impegnati in operazioni di ricognizione. Ghiotta occasione per killer come Rippert: aerei lenti, poco armati, vittime ideali per incrementare le tacche delle prede sulla carlinga. Rippert, 25 anni, aveva già fama di asso, non ancora a livello di Adolf Gallang, cento vittorie, «l’acrobata del circo di Hitler», ma pilota di vaglia, spericolato, deciso, maestro nelle tattiche di combattimento. E pensare che per mesi lo avevano tenuto a terra: circolavano voci che non fosse ariano, ma con sangue ebreo ereditato dagli antenati russi. Per fortuna il caposquadriglia, una leggenda della Luftwaffe, aveva spiegato alle superiori autorità naziste che pochi nell’aviazione, decimata da cinque anni di guerra, avevano ancora le sue qualità. E perfino Goering, appuntandogli la Ritterkreutz, si era poi scusato. Un fenomeno della caccia bloccato a terra, in piena guerra: incredibile, assurdo! Lo vide improvvisamente, spuntato tra le nubi spesse, in rotta chiara verso Marsiglia: un Lightning P-38 con i colori della Francia libera, un «Mosquito» come lo chiamavano affettuosamente i piloti alleati, affezionati a quell’aereo perfetto per le missioni segrete e la ricognizione fotografica. E infatti ronzava placidamente, basso, troppo basso, duemila metri non di più, compiendo grandi virate incerte come se cercasse la via. Stava evidentemente portando a termine la sua missione di ricognitore. «Ragazzo mio, sei un po’ imprudente e se non te la squagli troppo in fretta ti impallino», pensò Rippert, manovrando per mettersi in coda. Ma quello continuava a bordeggiare, senza dar segni di allarme. «Mi sono lanciato nella sua direzione e ho tirato, non verso la fusoliera ma mirando alle ali - racconta il pilota -. Colpito! Lo zinco è esploso, e lui giù, dritto nel mare. Nessuno si è gettato con il paracadute, nessuno è ricomparso tra le onde». Nell’aeroporto della Corsica, base alleata, da dove l’aereo era decollato al mattino, lasciarono trascorrere alcune ore per il ritorno dei ricognitori, fino alle 14,30; poi un ufficiale del comando segnò sul libro mastro delle missioni la formula di rito: «Pilot did not return and is presumed lost», il pilota non è rientrato e si presume sia disperso. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima: terribile normalità della guerra. Ma quel pilota che non era tornato alla base non era un pilota qualsiasi: si chiamava Antoine de Saint-Exupéry, l’autore di «Vol de nuit», di «Pilote de guerre», l’uomo per cui Gide aveva scomodato la citazione di Prometeo. Alla base tedesca erano in ascolto delle frequenze francesi; appresero subito dalle comunicazioni con i ricognitori che il celebre scrittore era dato per disperso. Rippert e i suoi compagni collegarono i due episodi, intuirono che il Mosquito abbattuto poteva essere quello scomparso. «Ho sperato e continuato a sperare, assurdamente, che non fosse lui. A scuola avevamo adorato tutti i suoi libri, sognato con le sue avventure nell’emisfero Sud. Come sapeva descrivere il cielo, le paure e le emozioni dei piloti! Era leggendolo che molti di noi avevano scoperto la passione di volare. Se avessi saputo che in quella carlinga era lui, giuro, non avrei sparato. Su tutti, ma non su di lui!». Per questo il gruppo di giovani piloti tedeschi decise, quel giorno del 1944, di mantenere il segreto. Nessuno doveva sapere che uno di loro aveva ucciso il poeta del cielo; e con lui una parte di se stessi. Le circostanze della morte di Saint-Exupéry sono diventate mistero: caduto sulle Alpi, per un guasto, abbattuto, suicida, scomparso semplicemente tra straziati, funebri artificiati miraggi, nel silenzio. Come si addice a un Icaro incontaminato da sozzure e da estasi, perduto in un volo interminabile. E così è rimasto: persino quando i rottami dell’aereo sono stati estratti dal mare e poi ricomposti al museo di Le Bourget. Per cercare la verità due storici, Jacques Pradel e Luc Vanrell, hanno dovuto risalire la pista dei superstiti della squadriglia tedesca, fingendosi autori di un libro sui Messerschmitt. Non sono riusciti a infrangere il patto di silenzio. Fino a quando un giorno lo stesso Horst Rippert, che oggi ha 88 anni, ha confessato: «Smettete di cercare la verità su Saint-Exupéry. Sono io che l’ho abbattuto». Domenico Quirico