La Stampa 16 marzo 2008, EMANUELE NOVAZIO, 16 marzo 2008
Ipnotizzati da Pechino. La Stampa 16 marzo 2008. Davvero qualcuno pensa che dobbiamo fare come Davide contro Golia?»
Ipnotizzati da Pechino. La Stampa 16 marzo 2008. Davvero qualcuno pensa che dobbiamo fare come Davide contro Golia?». Riflettendo sconsolato sulla repressione cinese in Tibet e le sue ricadute sull’economia e la politica italiana Massimo Calearo sceglie il realismo. L’ex presidente di Federmeccanica, oggi capolista in Veneto per il Pd di Veltroni, condanna duramente il comportamento di Pechino, ma non crede negli assalti ai mulini a vento: «Bisogna fare operazione di sistema insieme a Unione europea, Stati Uniti e Giappone. L’Italia non può mettersi a fermare la diga», confida alla «Stampa» pensando contemporaneamente al Tibet e alla penetrazione dei prodotti cinesi nel nostro Paese. Anche perchè in Cina «non siamo protagonisti ma comparse», e «il ritardo delle nostre imprese è talmente elevato» che non è «con un po’ di buonismo che si risolvono i problemi». Come dire che gli inviti al boicottaggi olimpici non servono. Anche un uomo solido e concreto come Calearo è ipnotizzato dalla Cina? La realtà forse è più complessa per chi deve - contemporaneamente - difendere gli interessi strategici delle imprese italiane e lanciare l’allarme sui diritti di un popolo sottoposto a repressioni sempre più violente come quello tibetano. Ma le sue parole sono un’ottima introduzione alle cautele che molti, in Italia, esibiscono di fronte a un Paese che si conferma un gigante nello sviluppo economico ma un nano nel rispetto dei diritti umani. Il governo, per esempio, ha preferito le agenzie di stampa alle note formali di protesta, all’indomani di un vertice europeo nel quale sulla questione tibetana è mancato l’accordo: il ministro degli Esteri D’Alema ha scelto l’Ansa per chiedere «con molta fermezza» al governo cinese di «porre fine alle intollerabili repressioni e alle uccisioni» e «di avviare il dialogo». Confermando così gli imbarazzi emersi in occasione della visita del Dalai Lama in Italia, lo scorso dicembre: Romano Prodi evocò allora la «ragion di Stato» per giustificare il mancato incontro con il capo spirituale dei buddisti tibetani, dal 1959 costretto all’esilio in India (Sarkozy fece lo stesso). A Torino e Milano ricordano bene gli «inviti alla prudenza» recapitati in quei giorni dalla Farnesina ai governatori regionali: Mercedes Bresso e Roberto Formigoni li ignorarono e scelsero di ricevere l’ospite («Noi non c’entriamo, la nostra Costituzione garantisce libertà di scelta alle Regioni, non siamo un Paese dirigista», era il senso del messaggio degli Esteri all’ambasciatore Dong Jinyi). Anche lo sport si adegua. Ieri il presidente del Coni, Gianni Petrucci, ha rifiutato di prendere posizione su quanto sta accadendo a Lhasa e su un eventuale boicottaggio, rinviando a quanto dichiarato dieci giorni fa: «Lo sport alle Olimpiadi distende e unisce le diverse posizioni. I Giochi rappresentano la fratellanza fra i popoli». Nient’altro, e si capisce: il Comitato olimpico nazionale ha rapporti molto stretti con la Cina, come dimostra la firma nel 2004 di un protocollo per la realizzazione di «Casa Italia», un centro supertecnologico molto conteso ma concesso soltanto a noi, nel quale convergeranno dirigenti e sponsor, si organizzeranno manifestazioni collaterali e si premieranno «privatamente» i nostri atleti. Ai quali, altro dettaglio importante, è stata garantita la possibilità di allenarsi all’Università di Pechino, dove volevano insediarsi gli americani. Ottime occasioni di cautela, certamente, che rimpiccioliscono però di fronte ai più universali imbarazzi di Benedetto XVI, stretto fra le necessità (e le difficoltà) del dialogo interreligioso coi buddhisti e le difficoltà (e le necessità) del dialogo diplomatico con Pechino. La scelta del Vaticano è difficile: se non esprimerà solidarietà ai monaci di Lhasa, contrariamente a quanto fece con i monaci birmani, rischia di rinnegare lo spirito di Assisi nel nome del quale Giovanni Paolo II rilanciò l’ecumenismo. Se prenderà posizione, pregiudicherà un dialogo appena ripreso con le autorità della Repubblica popolare dopo l’interruzione delle relazioni diplomatiche nel 1951: l’incontro fra delegazioni di alto livello conclusosi giovedì scorso è stato un fortissimo segnale di disgelo. Meglio un’accusa di reticenza o un fallimento diplomatico dalle conseguenze imprevedibili? EMANUELE NOVAZIO