Tuttolibri 15 marzo 2008, Mirella Serri, 15 marzo 2008
IO VISIONARIO TRA KAFKA E I SUPEREROI
Tuttolibri 15 marzo 2008.
«Ho visto cose che voi uomini non potete nemmeno immaginare…»: il celebre monologo
dell’androide di Blade Runner è la sua bibbia, ma il gran maestro dello scrittore Tommaso Pincio è Thomas Pynchon. Almeno così si pensa, incontrando il quarantenne narratore romano, al secolo Marco Colapietro, il ladro di identità, che ha sottratto il nome al romanziere di Long Island, il più riservato e segreto. Invece, entri in casa Pincio e di Pynchon non c’è traccia. Nessun tomo in bella mostra e nessun altarino dedicato all’alter ego. «Pynchon per me è come il Pincio. E’ l’evocazione di un luogo, un riferimento ironico. Gli ho rubato il nome perché mi piaceva il suono», spiega l’artista che come l’androide del film di Ridley Scott abita ai confini della realtà. E vi risiede con i suoi
personaggi schizzati ed emarginati, da Lo spazio sfinito (edito da Fanucci nel 2000) alla biografia del leader dei Nirvana, Kurt Cobain, immolato a soli 27 anni sull’altare delle sue passioni. Al contrario di quel che ci si aspetta, Pynchon non è la musa di Pincio. Tra i suoi numi c’è invece
Kafka: «Kafka fin da ragazzo. Ogni adolescente si sente un coleottero. Il grande praghese, per me, tuttora è un riferimento». E poi George Orwell. Ispirato dal libro di Orwell più visionario, 1984 - dove il Grande Fratello esercita un occhiuto controllo sulla vita di tutti i cittadini -, è proprio Cinacittà. Quest’ultima fatica di Pincio (uscirà da Einaudi Stile libero) racconta di un delitto efferato in una Roma atterrita e spopolata con i figli della lupa fuggiti via, affollata di cinesi, i soli che hanno saputo adattarsi all’esplosione climatica, a un caldo torrido per cui si dorme di giorno e si respira solo di notte. Da sempre animato da una grande passione per l’arte figurativa, Pincio/Colapietro ha esordito nel 1999 con M (Cronopio editore): già in questa opera prima era pronto a sbaragliare i
critici con la sua vena delirante. Le letture che hanno nutrito il giovane Pincio? «Il capitale di Karl Marx e Devil, eroe dark eviolento. Mio padre aveva un’ edicola di giornali, potevo prendere
tutto quello che desideravo. L’estate era il periodo dell’abbandono alle letture lunghe, fluenti, avvincenti, come gli indimenticabili Ragazzi della via Paal. Anche d’inverno, però, libri e fumetti a volontà».
Personaggi preferiti?
«I supereroi Marvel. Avevano stravolto l’iconografia classica. Superman e Batman erano invincibili. Ma i Marvel erano supereroi con superproblemi. Come Devil o gli X-Men, ”diversi” e buttati fuori dalla società. Capitavano loro tante disgrazie, i loro poteri erano una maledizione più che una
benedizione». I superproblemi dei suoi eroi l’hanno contagiata? «Direi di sì. Disegnavo e dipingevo. La pittura metafisica di Giorgio De Chirico ed Edward Hopper, i miei miti. Fino a vent’anni, poi tutto è crollato e mi sono sentito fallito». Perché? «Se i miei quadri fanno storcere il naso a me come possono piacere ad altri?, mi sono detto mettendomi di fronte all’amara verità. Ho gettato via
pennelli e spatola e sono andato a lavorare in una galleria d’arte. Dovevo elaborare il lutto di non essere più un artista». Al funerale di questa sua prima vocazione chi c’era a consolarla? «Joseph Conrad con Cuore di tenebra e con La linea d’ombra, racconto, in parte autobiografico, delle difficoltà di un ufficiale di Marina alle prese con la bonaccia e la febbre gialla. La mia bonaccia era nel sentirmi inutile e inadempiente di fronte alla mia prima ossessione. E poi, come i protagonisti di
Conrad, ero in balìa dei ciechi colpi del caso di cui il mare è spesso eletto a simbolo. Anch’io come il capitano di Conrad ero un fuggiasco, anche se non segnato dalla sventura o dal rimorso. Nei primi Anni Novanta mi trasferivo a New York, con pochi soldi e con la speranza di ritrovare lo slancio che avevo perduto dopo essere uscito dall’Accademia. Lavoravo per un pittore, non avevo una lira e mi
nutrivo di hamburger e hotdog, in un quartiere di barboni e di spacciatori neri. Poi ho cominciato a scrivere». I suoi primi approcci kafkiani, orwelliani e paranoici? «Al cinema. 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra, pellicola di fantascienza, con Charlton Heston, tratta dal romanzo di Richard Matheson. La nuova versione cinematografica è stata il recente I am legend con Will Smith. E’
una Los Angeles abbandonata e spettrale quella in cui si aggira Robert Neville, ex medico militare e ultimo uomo sopravvissuto a un olocausto batteriologico avvenuto due anni prima. Il film racconta l’apocalisse, lo squallore di un mondo devastato. Anche gli Anni Settanta, l’era dell’austerity
con il divieto di circolazione per le macchine nei giorni festivi, erano la raffigurazione dell’apocalisse, tutto era avvolto in una pellicola di torpore e di desolazione. Poi ho visto decine di volte Blade Runner, ispirato al romanzo breve Il cacciatore di androidi di Philip Dick». L’amore conosciuto attraverso il grande schermo? «E’ quello de L’impero dei sensi di Nagisa Oshima: la storia di un rituale di possesso sempre più estremo e completo che si conclude con un’evirazione. Un film che mi aveva sconvolto per il suo alto tasso di realismo». Realismo, è sicuro? «Vado di frequente a Bangkok dove c’è più di una clinica specializzata in operazioni di chirurgia plastica per questo tipo di danni. Le donne che vivono in una condizione subalterna, sempre per gelosia, si dedicano alla
vendetta. Addirittura si disfano dell’ organo sessuale maschile proprio per impedire la risistemazione del membro che del resto è solo simbolica. Sono situazioni estreme che però negli ultimi tempi si sono verificate anche in Italia». Opere altrettanto estreme? «Gli scritti di Aldous Huxley dal Mondo nuovo in poi e La scimmia sulla schiena di William Burroughs. Nevrotico, tossicomane, accusato di uxoricidio, di uso e spaccio di droghe, il capostipite della beat generation si differenzia dagli altri scrittori dediti agli stupefacenti per l’obiettività scientifica con cui descrive e sperimenta su se
stesso gli effetti delle varie droghe». Si è trovato turista per caso nelle zone più proibite? «Per caso, non direi. Quando ero un ragazzo facevo il finto tossico». Finto? «Simulavo di essermi ”fatto” per sentirmi qualcuno, per darmi importanza. Poi però le ho provatet utte. Non è come bere un bicchier d’acqua. Ma es- sendoci arrivato tardi e già adulto ne sono uscito indenne». Altre allucinazioni?
«Con i suoi romanzi, Georges Simenon è l’indiscusso maestro dello choc, con storie dense, fitte di colpi di scena dove l’ansia si insinua in una situazione tranquilla, accogliente. E poi nel mondo delle allucinazioni risiede anche l’amore incompiuto. L’amore ai tempi del colera di Gabriel García
Márquez è stato il romanzo della mia generazione che si interrogava: si può attendere per cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni la realizzazione di un amore?». Ultimi amori, ultimi riti (letterari e cinematografici)? «La strana vita di Cutter e Bone di Newton Thornburg (Fanucci) che ci
fa conoscere l’America post-Vietnam attraverso un viaggio di due strani emarginati: Bone che per vivere fa il gigolò e Cutter veterano della guerra del Vietnam, mutilato in più parti. Con il cinema italiano ho difficoltà». Chi butta dalla torre? «Tutti, tranne Paolo Sorrentino con L’amico di famiglia. Da vedere assolutamente. E poi la mia ultima passione è il super premiato Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen. Bravissimo l’Oscar, Javier Bardem, anche lui ricoperto da un diluvio di
riconoscimenti, nel ruolo di un paranoico e sanguinario inseguitore. La sua orribile figura mi rassicura. E’ la paranoia la carta di credito contro la mediocrità».
Mirella Serri