Corriere della Sera 15 marzo 2008, Massimo Gaggi, 15 marzo 2008
E ora l’America ha veramente paura. Corriere della Sera 15 marzo 2008. Ora la paura è quella di una reazione a catena
E ora l’America ha veramente paura. Corriere della Sera 15 marzo 2008. Ora la paura è quella di una reazione a catena. Un crollo paragonabile a quello del 1929 verrà probabilmente evitato, ma non è più un fantasma lontano. Il dramma di Bear Stearns si è consumato in poche ore. Ancora mercoledì il suo capo, Adam Schwartz, assicurava che la banca aveva capitali in abbondanza. Ma giovedì sera è iniziata la fuga dei risparmiatori e in una notte Bear Stearns è rimasta senza liquidità. «Non fosse arrivata la Federal Reserve a salvarla» dice l’analista di Credit Suisse, Carl Lantz, «ieri mattina non avrebbe avuto nemmeno i soldi per accendere la luce». La caduta di schianto della banca d’affari ha lasciato senza fiato gli operatori per il fatto in sé – le parole più usate per la sua possibile scomparsa sono «impensabile» e «surreale » – ma, soprattutto, per i modi e i tempi della crisi. Trovatosi all’improvviso in piena emergenza, Schwartz non ha avuto scelta: ha chiesto aiuto alla Banca centrale Usa. E la Federal Reserve, che da settimane non fa altro che lanciare ciambelle di salvataggio, ha deciso di assumersi direttamente l’onere dell’intervento d’emergenza. Nessuno sa con certezza cosa accadrà ora: alcuni sostengono che Bear Stearns – che ieri ha perso quasi metà del suo valore, ma ha ancora un patrimonio importante – riuscirà a restare sul mercato, sia pure "sotto tutela". Altri sono convinti che sparirà o verrà incorporata in un’altra banca già nei prossimi giorni. Ma una cosa è certa: quello eseguito ieri attraverso JPMorgan Chase non è un intervento di mercato. La banca che storicamente ha sempre assistito il Tesoro e il governo americano nei momenti difficili, ha accettato di funzionare da "pipeline", da collettore di un salvataggio nel quale non rischierà nemmeno un dollaro: l’operazione è stata ideata dalla Fed d’intesa col Tesoro e la Sec (la Consob americana). E le perdite che ne deriveranno saranno a carico della Banca centrale. Un mese dopo la decisione del governo laburista-liberista britannico di Gordon Brown di "nazionalizzare" la banca Northern Rock, anche negli Usa il capo della Fed, Ben Bernanke, compie una scelta dirompente come quella di soccorrere una banca privata con un intervento pubblico. Lo fa per evitare che il contagio si espanda e sfoci nel temuto "meltdown" del sistema finanziario americano. Ma a pagare saranno i cittadini: se non con le tasse, con l’inflazione e l’ulteriore perdita di valore della loro moneta. La necessità di agire in poche ore – un lasso di tempo insufficiente per attivare gli strumenti fin qui utilizzati dalla Banca centrale – ha poi costretto Bernanke a rispolverare una legge del 1932, varata quindi proprio per far fronte alla Grande Depressione e da allora quasi mai più utilizzata, che consente alla Fed di intervenire con una massiccia immissione di liquidità a favore di un singolo istituto, se c’è un voto unanime del board dei governatori in questo senso. Bear Stearns, la più piccola delle cinque grandi banche d’investimento di Wall Street, è di certo quella con i maggiori problemi. Ma non è l’unica malata. I governatori della Fed non hanno nemmeno preso in considerazione la possibilità di farla fallire – come sarebbe normale, in base al mercato, per un istituto che ha sbagliato molto – proprio per il timore di un "effetto domino". Quando, nell’estate scorsa, fu costretta ad ammettere di aver fatto indigestione di titoli basati su mutui subprime, Bear Stearns rimase da sola dietro la lavagna solo per pochi giorni: ben presto fu raggiunta da "sorelle maggiori" come Lehman Brothers e Morgan Stanley. Poi fu la volta di Citigroup, il più grosso gruppo bancario del mondo: denunciò perdite gigantesche, causate dalle scelte avventate della sua divisione che investiva nel mercato dei derivati. Da allora per Citi è iniziato un cammino doloroso fatto di avvicendamento dei capi, licenziamenti di massa, perdite e svalutazioni del patrimonio. Per colmare i buchi, la grande banca Usa è stata costretta a imbarcare nuovi soci stranieri (soprattutto fondi di governi asiatici e di Paesi arabi del Golfo) che hanno pompato 30 miliardi di dollari di risorse fresche nelle sue casse. Ma qualche giorno fa un grande investitore di Dubai si è detto convinto che gli interventi eseguiti finora sono insufficienti: ci sono in giro altri 15 miliardi di crediti non recuperabili. Quanto durerà, ancora, l’inverno per l’economia americana? Mark Zandi di Economy.com invita a non farsi illusioni: la crisi immobiliare farà sentire i suoi pesanti effetti fino al 2010. Ma Bush continua a dirsi ottimista e annuncia che la ripresa arriverà nel terzo trimestre del 2008, anche grazie agli assegni da un migliaio di dollari che il governo paracaduterà a maggio nelle case di decine di milioni di americani. Quasi divertito dal fatto che un calendario beffardo l’abbia costretto a comparire davanti all’Economic Club di New York nel giorno più nero di Wall Street, il presidente ieri ha tirato fuori il cow boy sfrontato che è in lui: ha celebrato la gloria di un centro finanziario – quello di Manhattan – «che tutto il mondo ci invidia» e ha chiuso col consueto atto di fede: «Credo in un dollaro forte perché l’economia è forte». Massimo Gaggi