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 2008  marzo 17 Lunedì calendario

Notizie tratte da: GIOVANNI ALLEVI, La musica in testa, Rizzoli, 2008, 219 pagine, 15 euro. Chiavi

Notizie tratte da: GIOVANNI ALLEVI, La musica in testa, Rizzoli, 2008, 219 pagine, 15 euro. Chiavi. Autodidatta, di nascosto dal padre, fino a dieci anni. Padre clarinettista (finché non vinse il concorso come insegnante alle magistrali), madre cantante lirica (finché non vinse il concorso come maestra elementare), al piccolo Giovanni è fatto divieto assoluto di aprire il pianoforte in legno laccato (marca tedesca, tasti d’avorio, comprato con tanti sacrifici), che luccica in salotto. Ma apri un cassetto, aprine un altro, Giovanni scopre il nascondiglio della chiave (di pomeriggio i genitori erano sempre impegnati a scuola nel tempo pieno). A Giovanni basta vederlo suonare e suonarlo quando rimane solo a casa (eseguendo tutte le musiche incise nei dischi di famiglia). Tintinnii. «Certe volte, mentre si mangia a tavola in cucina, si produce accidentalmente qualche suono, magari urtando un bicchiere. Allora mio padre dice: «Questo è un Si bemolle» (ma col tempo il piccolo Giovanni lo correggeva tra sé e sé: «Secondo me è un La bemolle»). Preludio. Arriva la recita di fine anno scolastico (la mattina dopo l’esame di quinta elementare). Giovanni deve entrare sul palcoscenico solo per dire, in falsetto: «Sono l’uccellino Cip Cip» (e nel dirlo fare un balzo in avanti). Ma Giovanni si accorge che c’è un pianoforte, e quando gli allievi sono richiamati per l’applauso, lui non resiste e si lancia sulla tastiera per eseguire Preludio in La maggiore (Chopin). «Percepisco lo stupore generale che in pochi secondi si trasforma in silenzio assoluto, mentre le mie piccole dita si arrampicano a orecchio su quelle dolci note, con un solo grande rammarico: il pianoforte è scordato e i tasti sono gialli e ruvidi» (segue applauso scrosciante). Conservatorio. La sua prodezza passa sotto silenzio durante il pranzo (consumato da Giovanni nel terrore della punizione paterna), ma il pomeriggio stesso i genitori lo iscrivono al conservatorio. Acqua. «Noi dobbiamo trasformare le nostre mani, avambracci e dita, in acqua. Per far ciò, è necessario prima di ogni cosa immedesimasi nella sua caratteristica peculiare: la passiva e calma indifferenza… Noi sottovalutiamo la potenza della passività; e ci ostiniamo a opporre la nostra energia a quella dell’intero universo. Invece, se impariamo a fare silenzio, saremo in grado di cogliere l’eterna danza che ci circonda». Definizioni. «E il conservatorio è per definizione un luogo dei conservatori». Stroncature. Milano, Giovanni Allevi studia composizione al conservatorio Verdi (mantenendosi con supplenze nelle scuole e qualche serata come cameriere), ma non supera un concorso interno per essere segnalati alla Società dei Concerti ed eventualmente inseriti nella stagione concertistica. Il direttore, subito dopo l’audizione: «Se fossi uno dei miei predecessori, come Pizzetti, la caccerei immediatamente dal conservatorio». Il medesimo, subito dopo, in privato: «Lei oggi ha suonato qualcosa di… di… geniale! Che si trova a metà strada tra la musica classica e il jazz… è interessante». Tecniche. «La musica contemporanea che imparo qui, non mi sembra musica; la dodecafonia, il serialismo, sono tecniche. Meravigliose, sorprendenti, sterili tecniche. Come faccio a difendere la mia identità, l’energia umana, vitale che è dentro di me?... Devo fare una scelta. Riuscire a essere me stesso o dare all’Accademia ciò che mi chiede? assurdo! Perché la ricerca musicale, anziché essere libera, è orientata verso le aspettative di una casta dominante? Una microsocietà dove pochi eletti parlano una sola lingua, dove vigono gerarchie?». Applausi. Allevi manda lo stesso le sue registrazioni alla Società dei Concerti, ottenendo di essere messo in programma (una serata al Teatro delle Erbe). «Quando finisce il concerto, l’applauso sale lento. Il pubblico è attonito». Osare. «Non bisogna mai aver paura di rompere le regole, se è il nostro cuore a chiederlo. Mai temere di destabilizzare un sistema: è nella sua natura la necessità di cambiare. Ma soprattutto bisogna sempre trovare il coraggio di esporsi, di osare, di mettersi in gioco: è un dovere dell’artista». Muti. Quella volta che, pur di farsi conoscere da Riccardo Muti, si fa ingaggiare come cameriere per una cena alla Scala, e a fine serata gli porge una lettera e un suo cd spiegandogli l’artificio (Muti «mi sorride come non aveva fatto mai in tutta la sera»). Osservata la scena un soprano inglese (che ha già avuto modo di ascoltare, commuovendosi, il suo cd), gli dice: «You will be famous!» («una frase che non potrò dimenticare»). Entità. «Per anni ho avuto la pretesa di pensare che fosse frutto della mia ispirazione, o della mia bravura. Poi però è diventato sempre più chiaro che la Musica è una vera e propria entità, davanti alla quale la mia possibilità di scelta è davvero minima. Lei infatti possiede una struttura interna già definita e concreta, che io non posso che rispettare». Manovale. «Cosa voglio io dalla musica? Che faccia un discorso, che abbia delle tensioni interne, che sia temporale, non statica. Ma soprattutto che esprima se stessa usando tutte le mie energie come quelle di un suo umile manovale». Frammenti. Gli capita di creare musica mentre fa la spesa al supermercato (processo «a rincorse»). Nella sua mente comincia a circolare un frammento musicale destinato ad avere forza compositiva («Perché? Perché è neutro. Più un frammento è neutro, più può garantire una spinta in avanti»). Lo annota su un foglietto pentagrammato, in mancanza, su un sms che si invia per sicurezza. «Il frammento è un virus che si è impossessato di me e non mi lascia più». Intanto continua a fare la spesa come un automa, se incontra gli amici non li riconosce. «Iniziano le rincorse. Accade cioè che la mente, nella sua ripetizione ossessiva, aggiunge al frammento alcune note ”stirandolo”… Si dà avvio così allo sviluppo orizzontale della musica, la parte creativa più entusiasmante». Sofferenza. La musica continua a girargli in testa fino all’ossessione, creandogli seri problemi di attenzione e di relazioni sociali, finché non trova pace nell’elaborazione scritta della partitura (in pratica deve spostare le note dalla testa alla carta). un compito meccanico, che non lo ha mai entusiasmato, nemmeno da studente. «Ma è uno dei doveri del compositore. Non si raggiungono mai grandi risultati se non si soffre un po’». Destini. «Attraverso la partitura scritta, la mia esecuzione al pianoforte e quella degli altri pianisti, oppure tramite il talento di un’orchestra, la mia musica entra nel mondo ed è in grado di sconvolgere esistenze e destini… La Musica ha sconvolto la mia esistenza, rendendomi libero e ha fatto in modo che moltissime persone si incontrassero sull’onda dell’emozione generata, sconvolgendo magari anche i loro destini». La Musica è. «Non posso dire: ”Adesso basta! Il brano è finito!” perché è la Musica a stabilire quando concludere. Ugualmente mi è vietato pensare: ”Il brano non deve durare più di tre minuti, altrimenti non è radiofonico… Oppure ancora, è impensabile dire: ”La Musica deve essere così, perché deve descrivere questa scena del film e deve concludersi quando la scena finisce”. La Musica, la mia Musica, non vuole fare da sottofondo a niente, non vuole avere padroni: Lei è». Porte. Apparentemente distratto, in realtà è sempre concentrato sulla musica. Talmente concentrato che una volta, in treno, gli è capitato di provare ripetutamente a girare la maniglia di una porta scorrevole per entrare nella sua carrozza, finché non si è alzata una vecchietta per aiutarlo, accorgendosi però che la porta era già aperta. Abbandono. «Vivere la vita o scriverla, esserne partecipe o pensarla: queste sono alternative esistenziali con cui gli artisti e i filosofi fanno i conti tutti i giorni. Ma il segreto è non pensare. Il pianista cerca i suoni e per farlo deve anche non pensare. Ogni suo calcolo infinitesimale precede e segue l’esecuzione... Ma quando è abbandonato alla dolce carezza dei tasti, sperimenta la solitudine totale ed è in grado di trascinare l’ascoltatore nella dimensione del non pensare, del silenzio, del recupero di sé. Egli stesso di rende conto che il concerto è passato in un attimo». Callas. Sta tenendo una lezione di educazione musicale in una scuola media come supplente, quando un’allieva (la prima della classe), illustra la sua ricerca sulla Callas: «Sì, prof, lei riteneva importante per il suo sogno spostarsi a New York e per farlo si organizzò un concerto per raccogliere i fondi necessari. Era una donna molto determinata la Callas!». Allevi parte per New York («Non è ancora successo niente, ma mi sento già i più grande pianista del mondo»). New York. Ottiene un’audizione dal direttore del Blue Note, Mister Steve. Prima di attaccare sussurra: «Tutto l’Amore del mondo sulle mie dita». Ottiene l’ingaggio. Debutta a New York il 6 marzo 2005, sala gremita. Invoca di nuovo tutto l’Amore del mondo e l’ultima nota, dopo un’ora e mezza, esce insieme a una lacrima. «Sollevo la testa. Riapro gli occhi. Dove sono? La Musica mi ha portato via. Intorno a me… il delirio! E io guardo incredulo il pubblico che applaude forte, che per me ha sfidato il freddo. Ho compiuto la mia impresa. Commosso e fiero, perché ancora una volta, vent’anni di studi, di sacrifici, di sudore e calli sulle dita, hanno voluto esprimersi». Idee. «Ora posso dire che ogni cosa può iniziare, perchè soltanto a noi sta la prima mossa: concepire un’idea sorretta dall’emozione. L’idea uscirà nel mondo e travolgerà i muri, avrà sostenitori e detrattori, procurerà ricchezze e delusioni. E attenzione, non esiste la fortuna: esiste la fortuna di avere un’idea forte e di crederci fino in fondo!». No concept. Abbandonato dalla sua prima casa discografica Soleluna, costretto a fare il cameriere per arrivare alla fine del mese, è desolatissimo, quando il suo amico Riccardo fonda un’etichetta apposta per lui, la Bollettino. Primo titolo registrato, No Concept, sul cd sono riportati i suoni originali senza manipolazione. Il pianoforte scelto è difficile da gestire. «Ogni nota, ogni accordo lascia nell’aria riverberi e risonanze che vanno domate. Ma sono proprio queste che, vibrando all’altezza dello sterno e sulla pancia, rendono il suono emozionate e comunicativo a livello fisico. Solo le risonanze permettono di vedere le note danzare nell’aria». Paura. «Anche io, quando guardo il pianoforte da dietro le quinte e i concerto sta per iniziare, ho paura. Ma benedico quell’emozione! Significa che sono ancora sensibile, che sono vivo e che ho da raccontare in note l’essere umano che è in me. Quando poi sento che il pubblico è lì non per giudicare ma per emozionarsi, la paura svanisce e lascia il posto a un entusiasmo che spero di non perdere mai!». Panico. Una volta finisce al pronto soccorso per un attacco di panico (lo scopre quando arrivano a casa i risultati delle analisi, tutti i valori sono a norma). «Poi rifletto sulla parola. Panico e Pan, il dio Tutto. Il Tutto. All’improvviso mi è chiaro che il panico non è l’incontro con un vuoto paralizzante, ma è l’esperienza del nostro tutto, della dirompente energia creativa che è dentro ognuno di noi! Sono stato travolto dal tutto, dal troppo, da un’emozione incontenibile, proprio nel momento in cui mi sono fernato». Il suono dell’ambulanza, «quella dolce melodia in Sol bemolle», gli ispira Panic. «E ogni volta che il panico tornerà, mi farò abbracciare ancora da quelle note, non per respingerlo, ma per accoglierlo come un dono. Il panico è un dono». Alleviani. Milano, 14 luglio 2007. Concerto in piazza del Duomo (cinquantamila persone, sui giornali «la pacifica invasione degli alleviani»). Proprio mentre suona Panic, si spegne il riflettore alla sua sinistra. « come se stessi pregando, non posso fermarmi. Lo stomaco mi si chiude per il terrore, avere la tastiera perfettamente illuminata per me è una priorità assoluta. Decido di affidarmi alla memoria tattile». Pretesti. «Li chiamano fan. Questa parola non mi è mai piaciuta, perché reca in sé il significato del fanatismo e un dislivello dei piani: da una parte l’artista e, in un gradino ”sotto”, il pubblico. No, non va bene così, con me non è andata così. Ognuno di loro, ogni puntino che vedo da qua, è un universo di emozioni, di storie, di esperienze e sogni, che mi hanno voluto regalare. Io sono solo un umile pretesto, un modo per farli incontrare». Divino. «Mi è stato chiesto se sono credente. Certo che lo sono! Non potrebbe essere altrimenti. Chiunque affronta un’attività artistica e creativa entra in diretto contatto con il mistero delle cose. E scopre che la quotidianità, privata del disincanto grazie all’Arte, è capace di regalarci squarci di senso e lampi di divino. Dall’immensità emotiva dell’uomo al baratro di una Trascendenza il passo è breve, ma per l’umiltà decido di restare al confine, a osservare il mondo con gli occhi della Musica, con instancabile e inesauribile stupore».