Note: [1] Bill Emmott, Corriere della Sera 15/3 (traduzione di Rita Baldassarre); [2] Fabio Cavalera, Corriere della Sera 15/3; [3] Raimondo Bultrini, la Repubblica 15/3; [4] Ennio Di Nolfo, Il Messaggero 15/3; [5] Bernardo Cervellera, Avvenire 15/3; [6] , 15 marzo 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 17 MARZO 2008. I
tumulti scatenati la settimana scorsa a Lhasa dai monaci buddisti e dai loro sostenitori laici, i più gravi che si sono verificati nella capitale tibetana del 1989, potrebbero costituire il più grande banco di prova della risolutezza del governo cinese dai giorni del massacro di Piazza Tienanmen. [1] Fabio Cavalera: «Diversi sono gli attori e diversa è la Cina, più solida rispetto al 1989. Ma, come allora le università che scioperavano mettevano in discussione la legittimità del gruppo dirigente comunista e la sua proterva negazione delle libertà di pensiero, così oggi i religiosi dei tre monasteri principali di Lhasa chiedono al regime di usare la tolleranza verso chi inneggia al proprio leader religioso e non le logiche di occupazione militare». [2]
La conta dei cadaveri disseminati per le strade di Lhasa è affidata ai racconti dei testimoni oculari (c’è chi racconta di averne visti 31 in un solo punto della città). Raimondo Bultrini: «A scatenare l’improvvisa fiammata di questi giorni sono state parecchie cause: il recente anniversario della fallita insurrezione del 1959, la vicinanza delle Olimpiadi e soprattutto l’inasprimento della repressione contro religiosi e popolazione civile denunciata proprio pochi giorni fa dal Dalai Lama nel discorso che celebrava la rivolta di cinquant’anni fa, alla quale seguì la sua fuga nell’esilio indiano». [3] Il Dalai Lama, capo spirituale del Tibet, nel 1959 cercò scampo rifugiandosi in India. Bill Emmott: «La Cina aveva invaso il Tibet nel 1950, appena un anno dopo la salita al potere di Mao Zedong. Mao si impadronì del Tibet per spingere la frontiera cinese fino all’Himalaya, in modo che la catena montuosa più alta della terra potesse assicurare il suo Paese contro le minacce di invasioni straniere da occidente». [1]
Le autorità cinesi sostengono che non si trattò di invasione né di colonizzazione. Emmott: «La Cina non faceva altro che ristabilire il controllo sul Tibet che aveva perso nel 1911, con il crollo della dinastia imperiale. vero che il Tibet anticamente si saldò alla Cina nel secolo XIII, quando Gengis Khan invase entrambi i Paesi con i suoi eserciti mongoli. Ma da allora il Tibet conobbe altresì lunghi periodi di indipendenza, pur sempre sotto una forte influenza cinese». [1] Negli anni Ottanta il governo cinese tentò di favorire una serie di attività economiche allentando il controllo sulla libertà religiosa dei buddisti, ma la portata di questo ammorbidimento non fu tale da sopire la dissidenza tibetana. Ennio Di Nolfo: «Mentre, come è ben noto, una parte della Cina entrava nella fase di grande trasformazione che ha dato vita a un sistema produttivo modernizzato e concorrenziale sul mercato globale, l’effetto di questa crescita non si è riprodotto nel Tibet, dove la popolazione, in gran parte dedita all’agricoltura, vive al di sotto degli standard del 1990». [4]
I tibetani non si sentono rassicurati neanche dalla politica di valorizzazione delle aree interne della Cina, avviata nel 2000, poiché vi leggono più il tentativo di favorire l’etnia Han , cioè quella propriamente cinese, a danno di quella tibetana. [4] Bernardo Cervellera: «Le alte terre himalayane, ricche di minerali, sono battute da scienziati cinesi che cercano filoni di rame, uranio e alluminio, mentre alla gente non resta che l’abbandono dei pascoli e il lavoro nelle fabbriche dell’occupante. Il turismo è controllato da milioni di coloni cinesi, che violentano la cultura ancestrale. Pechino dice che tutto ciò serve per lo sviluppo locale. Potrebbe essere vero, se non vi fosse pure il genocidio culturale e religioso: nessun insegnamento del credo e della lingua tibetani». [5]
La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Federico Rampini: «Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l’Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, è difficile resistere alla ”sinizzazione”». [6] Il governo regionale del Tibet ha dato la colpa degli scontri al Dalai Lama: «Abbiamo prove sufficienti per dire che il recente sabotaggio a Lhasa è stato organizzato, premeditato e diretto dalla cricca del Dalai Lama». [7] Ian Buruma: «Iniziative come quelle di questi giorni, con monaci e civili coinvolti, hanno un’origine locale e uno sviluppo su cui il Dalai Lama non ha né può avere influenza. La difficoltà per Pechino è che il clero in Tibet ha carisma, è rispettato, seguito. Se quei monaci fossero cinesi, la polizia avrebbe già chiuso le lamaserie. Invece non può. Si è limitata a circondarle. I monaci tibetani sono tosti. In Birmania il regime si è permesso di essere brutale con i monaci. In Tibet i cinesi devono fare attenzione». [8]
Dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. Rampini: «La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un’autorità spirituale indipendente. Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l’idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c’è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista». [6] Buruma: «Il Dalai Lama è per i tibetani quello che fu Wojtyla. E poi i monaci rispondono a un ordine, hanno regole interne, disciplina. Il regime tenta di infiltrarli ma senza successo. Il clero tibetano ha una capacità di controllo formidabile. Organizza. Si mobilita». [8]
Nel 1989 il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare. Rampini: «Non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l’esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell’uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen». [6] Emmott: «Non c’è dubbio che se le autorità cinesi vorranno sopprimere brutalmente le proteste, possono farlo e ci riusciranno. La questione, tuttavia, è se sono disposte a farlo nell’anno dell’Olimpiade». [1] Boicottare le Olimpiadi di Pechino per via della repressione cinese in Tibet? Non se ne parla nemmeno, ha già detto Javier Solana, rappresentante per la politica estera europea e candidato a diventare il primo ministro degli esteri dell’Unione a partire dal prossimo anno. [9]
Nei giorni scorsi centinaia di tibetani hanno marciato a New York, chiedendo il boicottaggio delle Olimpiadi, viste come un modo «per legittimare l’occupazione illegale del Tibet». Sempre a New York, gli Students for Free Tibet ritengono invece che le Olimpiadi siano un’occasione. Viviana Mazza: «La volontaria Melanie Raoul, dice che i media potranno avere accesso al Tibet e parlarne. Intanto i governi dovrebbero fare pressioni ”per la libertà di espressione e associazione”». [10]
Tocca alla nuova nomenklatura dimostrare che, a 19 anni da Tienanmen, non è stato un errore consegnare a Pechino un evento di pace come le Olimpiadi. Cavalera: «La Cina è davanti a un incrocio pericoloso e ha gli occhi del mondo addosso». [2] Per il Partito comunista cinese la sicurezza e la stabilità sono più importanti di qualche settimana di eventi sportivi. Emmott: «Se non riuscirà a mantenere il controllo sul Tibet, rischia di incoraggiare i movimenti separatisti altrove nel Paese, specialmente nello Xinjiang, la provincia dell’estremo ovest, dove la popolazione conta un’alta percentuale di fedeli musulmani». [1] Buruma: «In nessun’altra regione della Cina esistono istituzioni forti e organizzate come il buddhismo lamaista. Il Tibet è un caso a sé». [8]
Mostrando tentennamenti nel trattare con i monaci tibetani, la Cina spianerebbe la strada a ulteriori problemi alla morte del Dalai Lama. Emmott: «In quel momento, con ogni probabilità scoppierà una disputa sul successore: da un lato la Cina sceglierà un candidato di suo gradimento, mentre i monaci gli preferiranno qualcun altro. Il pericolo insito nelle proteste religiose spiega perché la Cina si sia mostrata così cauta nel non criticare il regime militare nella confinante Birmania (Myanmar), quando ha fatto ricorso a mezzi brutali per sopprimere le rivolte interne dei monaci buddisti lo scorso anno». [1]
Birmania, Tibet: le due crisi non sono sovrapponibili. Buruma: «Il Tibet, in ultima istanza, aspira all’indipendenza, mentre i birmani protestano contro il loro governo: tirannico e corrotto, ma birmano. In Tibet chiedono sovranità, in Birmania democrazia. In Tibet si è fatto ricorso alla violenza, non in Birmania. Per un tibetano il nazionalismo e il buddhismo coincidono. Ecco perché l’irredentismo è così duro». [8] Rampini: «Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l’indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong». [6]
Il Dalai Lama chiede di porre dei limiti all’immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l’ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa. Rampini: «Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un ”secessionista” con cui è impossibile dialogare». [6] Emmott: «L’ipotesi più probabile è che, all’occorrenza, faranno ricorso al pugno di ferro, con conseguente danno alla loro reputazione internazionale». [1]
La Cina è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu e dell’Organizzazione del commercio mondiale. Rampini: « il principale partner commerciale dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l’ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale. indispensabile che l’Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie turbolenze se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso». [5]