STEFANO SEMERARO, La Stampa 25 febbraio 2008, 25 febbraio 2008
Carriere stroncate. La Stampa 25 febbraio 2008. Nello sport ci sono tanti generi. Anche il noir. Anche l’horror
Carriere stroncate. La Stampa 25 febbraio 2008. Nello sport ci sono tanti generi. Anche il noir. Anche l’horror. L’ultimo Freddy Kruger si chiama Mark Taylor, il tacchetto uscito dall’inferno che domenica ha quasi amputato in campo il piede sinistro del croato dell’Arsenal, Eduardo. Croc, legamenti lacerati, ossa esposte, grida di dolore e brividi in tribuna, foto da svenimento sui giornali inglesi di ieri. Uno splatter, solo che mancavano gli effetti speciali. Era tutto ferocemente vero. Il difensore del Birmingham City ha molti antenati, c’è tutta una genealogia di cattivi, provocatori, rovinacarriere o aspiranti tali da esplorare. Un filone quasi inesauribile. Ma sono poi solo i cattivi ad essere cattivi, o tutto lo sport nasconde un lato oscuro, un cuore di tenebra che batte lento sotto la pelle candida del fair-play? «Datemi un atleta - disse una volta Adolf Hitler - E vi restituirò un esercito». Non si chiama «killer istinct», istinto omicida, la dote dei fuoriclasse? The Sun, il tabloid inglese specializzato in emozioni forti, a gennaio aveva giusto stilato una top-ten dei «macellai», o se preferite dei dieci calciatori più duri della storia. Al primo posto quell’attaccabrighe di Graeme Souness, capitano della Scozia transitato anche alla Sampdoria. Al secondo Andoni Goicoechea, il macellaio di Bilbao che nell’83 disintegrò una caviglia a Maradona e poi concesse il bis con Schuster. Un monumento, nel ramo. Nella hit parade del Sun l’Italia è (degnamente?) rappresentata da Romeo Benetti, l’archeoMaterazzi, il mediano contundente di Milan e Juve negli anni 70 (trofeo più noto: ginocchio e annessa carriera di Franco Liguori, centrocampista del Bologna). In classifica non è entrato Nobby Stiles, il picchiatore che ripuliva il campo a Bobby Charlton e George Best nel Manchester e nella nazionale inglese. C’è invece, all’ottavo posto, Vinnie Jones, il gallese che a cavallo degli anni 80 e 90 dell’annullamento dell’avversario con metodi cruenti ha fatto un credo. Anzi, un corso video: «Soccers’s Hard Men», in cui dimostra con dovizia di esempi come ci si comporta da duri durante un match di calcio. Jones, che con un tackle stroncò la carriera di Gary Stevens, difensore dell’Arsenal, e si fece beccare con la mano stretta sui testicoli di Gascoigne. La Football Association lo multò di 20 mila sterline, ma lui se ne infischiò, visto che grazie alla fama da spaccaossi si era guadagnato nel frattempo una seconda carriera da showman e attore che a oggi conta 28 pellicole, un paio di denunce per aggressione e uno spot in cui, ghignante, maltratta un cardellino. Come commediante ha avuto una sua piccola fortuna anche Eric Cantona. King Eric, l’iracondo numero 7 francese del Manchester trasformatosi in icona della violenza sport-pop con il salto alla Bruce Lee con cui tentò di zittire Matthew Simmons, tifoso del Crystal Palace che lo aveva deriso dopo un’espulsione. Nel basket a farsi un nome per i colpi proibiti negli ultimi anni è stato Ron Artest, l’ala dei Sacramento Kings che nel 2005 si beccò 73 giornate di sospensione per aver scatenato la madre di tutte le risse, scalando addirittura le tribune per raggiungere un fan che gli aveva tirato una bottiglietta - e che nel 2006 fu di nuovo sospeso per aver preso a gomitate la testa di Manu Ginobili. Nell’hockey su ghiaccio i fabbri di carne umana sono merce comune. Ma nel 2004 l’NHL è rabbrividita per l’intervento con cui Tony Bertuzzi, durante un Vancouver-Colorado ha rovesciato sul ghiaccio la testa di Steve Moore, fratturandogli tre vertebre cervicali. Bertuzzi, attenzione, non era mai stato un giocatore violento. Non certo un Mike Tyson, capace di addentare l’orecchio di Holyfield. «Non sono un invasato, perdonatemi, non è quello il mio stile», implorò Bertuzzi in una conferenza stampa di scusa. Un raptus in pista o in campo può cogliere chiunque. Emile Griffith, boxeur amabilissimo fuori dal ring, in un match mondiale dei medi nel 1962 massacrò di botte fino ad ucciderlo Benny «The Kid» Paret, che lo aveva chiamato «faggot», frocio, durante la cerimonia del peso. Schumacher chiuse con rischioso cinismo Damon Hill nell’ultima gara del Mondiale ’94, buttandolo fuori pista, e tentò lo stesso giochetto ai danni di Villeneuve nel ’97. Nelson Piquet e Ayrton Senna si presero a sportellate due anni di fila in Giappone, nell’89 e nel ’90, rischiando la salute per un titolo. L’altro Schumacher, il portiere della nazionale tedesca, nella semifinale dei Mondiali dell’82 mandò in coma il francese Battiston con un’uscita omicida. Tonya Harding, nel mondo apparentemente innocuo del pattinaggio, tramò la gambizzazione della sua avversaria Nancy Kerrigan. Sempre solo mostri isolati? Di Cantona, oltre ai gol e agli interventi a gamba tesa, si ricorda una frase che illumina tutta la questione di una luce più intensa e inquietante. «Quando i gabbiani seguono la nave», disse riferendosi ai giornalisti che lo braccavano in attesa di nuove ebollizioni, «è perché pensano che saranno gettate in mare delle sardine». La violenza come spettacolo, lo spettacolo come disciplina sportiva. Lo sport come sublimazione, e a volte imitazione della guerra. Il pubblico come un voyeur collettivo che attende, spera, di assistere alla mimesi di una strage. Come al Colosseo. Irwin Shaw ha scritto che «se i giocatori fossero dotati di pistole, non ci sarebbero stadi larghi abbastanza per contenere le folle». Per George Orwell, «lo sport preso seriamente non ha nulla a che fare con il fair-play. fatto di gelosia, aggressività, ferocia, della violazione di tutte le regole e del piacere sadico di assistere a una violenza: in altre parole, è la guerra meno le armi». Il piacere di atterrare l’avversario, che inorridiva il Nobel Elias Canetti, nel rugby è nutrimento. Un grandissimo campione come Serge Betsen ha ammesso di essersi fatto praticare iniezioni per diminuire l’aggressività. Lo sport, come la guerra, è bello anche se fa male. Per qualcuno, in campo e fuori, è bello proprio perché fa male. Anche se fa male, molto male ammetterlo. Stefano Semeraro