Il Sole 24 Ore 11/11/2007, pagg.10-11 Sandro Gerbi, 11 novembre 2007
« imbarazzante scegliere tra Prodi e Berlusconi». Il Sole 24 Ore 11 novembre 2007. Per moltissimi anni non ho osato avvicinare Enrico Cuccia, pur avendo qualche titolo «ereditario» per farlo
« imbarazzante scegliere tra Prodi e Berlusconi». Il Sole 24 Ore 11 novembre 2007. Per moltissimi anni non ho osato avvicinare Enrico Cuccia, pur avendo qualche titolo «ereditario» per farlo. Nel 1938 mio padre Antonello, che dal 1932 aveva diretto l’Ufficio studi della Banca commerciale, a causa delle leggi razziali si era rifugiato in Perù, con l’aiuto di Raffaele Mattioli. A Milano era stato sostituito dal suo vice, Ugo La Malfa. A Lima, durante la guerra, mio padre era riuscito a ricostruirsi una vita decorosa, come responsabile dell’Ufficio studi del Banco de Crédito del Perú, la più importante azienda di credito locale, allora controllata dalla Comit. Nove anni più tardi – e un anno prima del nostro rientro definitivo a Milano – mio padre aveva finalmente rimesso piede in Europa, partecipando nel giugno ’47 alla seconda Conferenza internazionale degli economisti di banca, a Eastbourne. Si trattava di una «rimpatriata» nella stessa ridente cittadina inglese che aveva ospitato la prima riunione del genere, nel 1937. Simbolicamente, si voleva chiudere tra due parentesi la tragedia della guerra e ricominciare, tra colleghi di tutto il mondo occidentale, a discutere la nuova situazione economica e i reciproci metodi di lavoro. Sul tappeto, la ricostruzione postbellica, i problemi monetari del momento e i sistemi bancari dei vari Paesi partecipanti. Qualche mese prima mio padre, scorrendo la lista degli invitati, aveva constatato che, in rappresentanza della Banca di Credito Finanziario (poi Mediobanca), sarebbe venuto a Eastbourne anche Enrico Cuccia, un nome per lui semi-sconosciuto. Gli sembrava in verità che i suoi due fratelli emigrati a New York (Giuliano, speaker della «Voice of America», e Claudio, medico) lo avessero menzionato in una delle loro lettere al Perù, quando Cuccia era venuto negli Usa con la missione economica Mattioli-Quinteri, tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45. Ma era desideroso di saperne di più. Così, prima di partire da Lima per Eastbourne, aveva chiesto lumi al suo vecchio amico, Giovanni Malagodi, strettissimo collaboratore di Mattioli alla Comit sin dal 1926 e all’epoca ancora a Buenos Aires per lavoro. Ecco il bel ritrattino stilato dal futuro leader del Pli, in una lettera a mio padre, datata 9 febbraio 1947: «Il dott. Enrico Cuccia è siciliano educato a Roma, biondo, carino e paffutello, marito di una figlia di Beneduce (...): cominciò all’Istituto delle Esportazioni ed accompagnò Jung alla Conferenza Economica di Londra nel 1933, ancora giovanissimo (deve avere qualche anno meno di te e di me); di lì passò agli Scambi e Valute, e gli toccò di master-mind (organizzare) le valute in Etiopia ai tempi del terribile Maresciallo Graziani (...) con conseguenze per lui pericolose; poscia Iri, e poi Dircomit: di lì, dove era, od è ancora condirettore centrale, è passato alla nuova Mediobank, o banca per il credito di ricostruzione a medio termine, formato da Comit, Credito e Bancoroma, come direttore generale. molto amico di Raff. (Mattioli) con cui è stato p. es. a Washington al principio del ’45. Anche con me era in termini cordiali. Tutt’altro che fesso. Non sapevo che si fosse interessato particolarmente di studi economici; sin embargo (tuttavia) deve essere dottore in scienze economiche. Voilà le Masque de fer». Cuccia e Gerbi si incontrarono dunque a Eastbourne e furono immortalati insieme nella foto di gruppo della Conferenza, mentre mio padre scattò delle istantanee individuali a tutti i partecipanti, Cuccia compreso. Dopodiché, a Milano, e fino al ritiro di mio padre dalla Comit, nel 1970, si videro ben poco, pur lavorando a cento metri l’uno dall’altro, forse perché piuttosto «orsi» entrambi. Ma Cuccia sapeva benissimo che mio padre faceva parte dello stretto entourage di Mattioli, come era accaduto a lui stesso, finché le divergenze sulla conduzione di Mediobanca non lo avevano allontanato da «piazza della Scala». Con questi «precedenti», e visto che Cuccia era in privato una persona molto più affabile e spiritosa di quanto non si creda, oltre che curiosa dell’altro, forse avrebbe accettato, già nei primi anni 70, di incontrarmi. Non per un’intervista, Dio ne scampi!, bensì semplicemente perché ero «il figlio di Gerbi». Ma non ebbi il coraggio di farmi avanti. Innanzi tutto, perché il dominus di «via Filodrammatici» ispirava comunque una straordinaria soggezione e si sapeva che non riceveva giornalisti, specie alle prime armi (che io sappia, erano ammessi solo Emilio Moar, quando nella sua domenicale Lettera al risparmiatore, per il Sole-24 Ore, doveva occuparsi di Mediobanca; e poi Indro Montanelli, ma non certo per rilasciare interviste). C’erano però due ragioni più sostanziali, che mi trattenevano. Da un lato, ero suggestionato dal giudizio negativo che di Cuccia dava il mio boss, Renato Cantoni, presso il cui studio lavoravo sin dalla fine del ’69, facendo al contempo anche il giornalista free-lance (Cantoni era «associato» con gli agenti di cambio Scandellari, Ventura, eccetera). D’altro canto, anni dopo, avrei provato qualche imbarazzo ad avvicinare Cuccia a causa del suo comportamento elusivo nel «caso» Ambrosoli. La svolta nel 1990 Dubitavo quindi che avrei mai avuto l’occasione di incontrarlo. Ma mi sbagliavo. Nel 1990 ci fu per me un’imprevista svolta professionale. Un amico carissimo troppo presto scomparso, Gaetano Scardocchia, allora direttore della «Stampa», mi invitò a collaborare alle pagine culturali del suo giornale. Gli era piaciuto, bontà sua, un mio saggetto sull’emittente «La Voce dell’America» durante la guerra. Dopo qualche mese di rodaggio, proposi a Scardocchia un pezzo su tre fatti storicamente rilevanti, che avevano avuto per protagonista Cuccia: e il suo scontro con il maresciallo Graziani, nell’Etiopia del 1936-37; r un suo viaggio nella neutrale Lisbona del ’42, latore di un messaggio degli «azionisti» Adolfo Tino e Ugo La Malfa, da trasmettere a New York, al conte Sforza; t la sua partecipazione alla ricordata missione economica negli Usa con Mattioli. Dopo aver scritto l’articolo, decisi di farlo leggere in anteprima all’interessato. In fin dei conti, poteva solo correggermi delle inesattezze, non vi era nulla da censurare. Un paio di giorni dopo, il 19 aprile 1990, con mia somma sorpresa, mi fu recapitato a mano il seguente biglietto dattiloscritto: «Caro dott. Gerbi, grazie per la preview del suo ”pezzo”. Non ritengo la mia persona, e tanto meno il mio lavoro, così importanti da meritare attenzione; ed è questa (oltre al doveroso ”segreto professionale”) la ragione del mio silenzio e del rifiuto di commentare o smentire chiacchiere e favole che mi riguardano. Per quanto concerne il Suo articolo, al fine di evitarLe la fatica di controllare all’anagrafe, Le preciso che mio suocero (Alberto Beneduce) ebbe, oltre al figlio Ernesto, quattro figlie: Anna Maria, Italia Libera, Vittoria Proletaria e Idea Nuova. Le risparmio anche la noia di ripescare negli Archivi del defunto ”Sottosegretariato per gli Scambi e le Valute” la nota che riassume il lavoro del Delegato (lui medesimo) in Aoi, in data 17 giugno 1937. Il 1° luglio successivo, un comunicato di ”Palazzo Venezia” precisava che Mussolini aveva elogiato il Delegato per le ”circostanze particolarmente difficili” in cui si era svolto il suo lavoro, mettendo così fine alla mia querelle con Graziani. Con viva cordialità, mi creda, Suo Cuccia». Il mio articolo usciva dunque sulla «Stampa» del 6 maggio 1990. Ma era evidente che, inviandomi il rapporto di nove pagine sulla sua esperienza africana, Cuccia mi suggeriva implicitamente di scrivere un secondo e più approfondito articolo. Un invito a nozze per un giornalista. Inoltre, ma questo lui non poteva saperlo, ogni mia eventuale ricerca fra le carte del «defunto» ministero Scambi e Valute non sarebbe approdata a nulla, perché di quell’archivio è sopravvissuto ben poco. Scrissi dunque anche il secondo pezzo, tutto dedicato all’avventura africana di Cuccia e, forte della prima esperienza, glielo mandai in visione. Questa volta, era il 24 ottobre del 1990, invece di una lettera, mi arrivò una telefonata. Trascrivo dai miei appunti: «Oggi verso le 11 mi chiama Cuccia, tutto contento, per ringraziarmi dell’articolo. Mi dice pure che a un certo punto era stato richiamato in Italia d’urgenza dal ministero, perché Mussolini - avendo letto e apprezzato i suoi dettagliati memorandum economici dall’Etiopia - voleva incaricarlo di stendere una relazione sulla situazione militare in Etiopia. Ma lui aveva decisamente rifiutato, essendosi già manifestata l’ostilità di Graziani nei suoi confronti. Mi corregge un paio di dettagli e mi chiede se all’Archivio degli Esteri ho trovato traccia di un telegramma di Graziani a Mussolini in cui si dice «Cuccia non habet senso dell’Impero». Gli rispondo di no, ma interpellerò per sicurezza lo storico del colonialismo, Angelo Del Boca. Gli chiedo poi se è possibile esaminare i rapporti da lui inviati per un anno circa da Addis Abeba al ministero Scambi e Valute. Risponde che li cercherà e, se li trova, mi consentirà di vederli, ma in Mediobanca. Pochi giorni dopo, mi telefonò Giancarla Vollaro, la storica assistente di Cuccia, per dirmi che i rapporti erano a mia disposizione. Mi precipitai in Mediobanca e per qualche ora mi immersi in quei preziosi documenti. Era affascinante leggere come il ventinovenne funzionario avesse affrontato in modo tecnocratico e per nulla «fascista» i temi più svariati, dal controllo dei cambi alla liquidazione della Bank of Ethiopia. Era prevedibile che il suo rigore lo avrebbe portato allo scontro con le autorità locali, desiderose solo di arricchirsi a man bassa (in altra circostanza Cuccia mi dirà che a suo avviso la grande corruzione che avrebbe afflitto l’Italia del dopoguerra aveva avuto origine proprio in Africa Orientale). Per meglio studiare quelle carte, tentai allora l’impossibile: chiesi una fotocopia di tutto il malloppo, circa 300 cartelle fittamente dattiloscritte. E avvenne il miracolo. Il 19 novembre il malloppo era nelle mie mani. Da tempo mi propongo di cavarne un saggio dal titolo «Cuccia in Africa Orientale». E non dispero di scriverlo, prima o poi. Il primo incontro Il 23 novembre del ’93 trovai finalmente un buon pretesto per andare a trovare Cuccia. Era appena uscito, da me curato per la Ricciardi, un volumetto (Germania e dintorni) in cui avevo raccolto le corrispondenze inviate da mio padre a vari giornali italiani fra il 1929 e il 1933. Immaginando che potesse interessare l’allora «presidente d’onore» di Mediobanca, chiesi un appuntamento, tramite la signora Vollaro, per fare la consegna brevi manu. E fui ricevuto. Trascrivo ancora dai miei appunti, rifilando e aggiustando qua e là. Ormai sono passati parecchi anni, e non credo di violare alcun segreto. Salgo al primo piano di «via Filodrammatici». Incrocio di sfuggita il pensieroso Vincenzo Maranghi, «delfino» di Cuccia. I commessi mi introducono nella Sala del Consiglio (sentirò, uscendo, che dopo di me verrà il dottor Tronchetti Provera, amministratore delegato della Pirelli). Soffitto a cassettoni dorati, lungo tavolo in noce e, a una delle pareti, mensola marmorea con al centro un orologio tardo-settecentesco, ai lati due fotografie incorniciate: a destra il volto sereno di Tino, presidente «storico» di Mediobanca, a sinistra quello bonariamente accigliato di Mattioli. Dopo un paio di minuti, entra da una porta laterale Cuccia e mi accoglie con molta cordialità. Ci accomodiamo allo stesso lato del tavolone. Consegno il libro e si parla subito di mio padre. Dice di averlo conosciuto già negli anni 30 all’Iri (probabilmente tramite Mattioli, incontrato nel ’34). Rapporti peraltro sporadici. Poi a Eastbourne nel ’47. Non serba però ricordi particolari di quella riunione, se non delle capacità fotografiche di mio padre. Cuccia esamina con curiosità Germania e dintorni. Mostra interesse per un articolo su Schacht, presidente della Reichsbank. Osserva anche un altro libro paterno, Il peccato di Adamo ed Eva, che ho con me. Se lo rigira tra le mani. Poi sbotta d’improvviso: «Lei ha il sorriso di suo padre». Debbo ammettere che non riesco a provare per lui avversione umana, nonostante il «caso» Ambrosoli e le critiche che gli vengono da più parti per le sue strategie finanziarie. Cuccia mostra un’amabilità insospettata. E non è che intenerisca per l’età avanzata. solo un po’ debole d’udito (porta l’apparecchio), ma mantiene un’invidiabile asciuttezza, a parte una certa prominenza del ventre, normale in un ultraottantenne. Il pensiero è vigile e il passo svelto. Si parla di Stefano Siglienti, già vice direttore generale del Credito Fondiario Sardo e dopo la guerra a lungo presidente dell’Imi. «Era un uomo eccezionale e anche un grandissimo manovratore, non in senso negativo». Concorda con me sull’opportunità di rivalutarne il ruolo nella storia dell’opposizione al fascismo. «Tutta l’attività cospirativa romana del Partito d’Azione si svolgeva al Fonsardo». Fa un cenno ai finanziamenti dell’Imi a Rovelli e ne attribuisce la responsabilità più a Silvio Borri, successore di Siglienti, che non a quest’ultimo. Gli domando quali giornali legga. A parte «Herald Tribune», ne legge quattro: «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «La Repubblica» e «Il Giornale». Reputa «La Stampa» il migliore fra questi. Lo legge con attenzione, mentre sfoglia appena gli altri. Non gli piace «La Repubblica» («nel settore economico è spesso meno informata di me!») e trova deboli le sue pagine culturali. A proposito della Comit, dice che dai tempi di Mattioli c’è stata una graduale decadenza. Più volte manifesta stima e rispetto assoluti per l’uomo che ha fatto nascere Mediobanca. E, a riprova, cita il fatto che sapeva circondarsi di persone a loro volta di grande valore, come mio padre. Poi conclude: «Pensi che terribile Paese è il nostro, dove si nomina primo ministro un Goria e si licenzia un Mattioli»». Né Berlusconi né Prodi 8 febbraio 1995. Ho chiesto di vedere Cuccia per commentare due documenti da me reperiti ai National Archives di Washington. Sono firmati dall’ambasciatore Usa in Italia, James Dunn, e datati 1947. Nel primo si dà un giudizio malevolo su Mediobanca, nel secondo si definisce Mattioli «politicamente opportunista». Cuccia non li reputa interessanti, appartengono a una fase superata. Ritiene che la fonte del primo sia l’amministratore delegato del Banco di Roma, Ugo Foscolo. Lui non voleva partecipare al capitale di Mediobanca, lo ha costretto Menichella (allora direttore generale di Banca d’Italia). Cuccia ricorda Foscolo come un tipo «ridanciano», sulla cinquantina. A una riunione del consiglio di Mediobanca raccontò il seguente aneddoto personale: un giorno era entrato in una casa di tolleranza e poi si era assopito; durante il sonno, la ragazza gli si era avvicinata e aveva curiosato fra le carte del suo portafoglio; quando si era svegliato, lei gli aveva chiesto: «Ma tu ti chiami davvero Ugo Foscolo?». «Sì». «Perché, sai, io mi chiamo Annie Vivanti, come la scrittrice». Doveva essersi nutrita di letteratura! L’unico amministratore delegato del Banco di Roma con cui Cuccia ha avuto «rapporti fantastici» è stato Guido Ruta. Sa che Cesare Geronzi, anch’egli in quel momento consigliere di Mediobanca, è piuttosto discusso, ma lo definisce «molto capace». Cuccia è assai pessimista sul futuro dell’Italia. Dice che non ci sono più grandi intellettuali del calibro di Salvatorelli, De Ruggiero, Omodeo o Chabod, che univano competenza a passione civile. Concorda con me sul fatto che sono rimasti solo Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Oggi i migliori pensano unicamente al loro particolare, non gliene importa nulla di ciò che avviene a livello generale. Si domanda perché. Lui un’idea se l’è fatta. La Resistenza era contro il fascismo oppure contro i nazisti? Propende per quest’ultima ipotesi, in quanto ritiene che gli italiani siano rimasti fascisti nell’intimo. Altro che turarsi il naso... Questo è un Paese di fascisti! Ricorda quanto gli diceva sarcasticamente Tino, la persona più intelligente da lui mai conosciuta: «Vedrai, tra quarant’anni (parlava a metà degli anni 50 ndr.) si sosterrà che l’ultimo Stato efficiente è stato quello fascista!». Quando Cuccia era giovane, la popolazione italiana era la metà di quella attuale: almeno per una questione di numeri, i mascalzoni erano di meno! E gli industriali di oggi? Pensano solo ai loro affari. Non ama né Berlusconi né Prodi, che sarà il suo prossimo avversario alle elezioni politiche. Trova imbarazzante dover scegliere fra l’uno e l’altro. Liquida il primo con un epiteto poco lusinghiero, anzi irriferibile. Ma è severo anche con Prodi, per il suo vanto di aver risanato l’Iri: «Dice di aver guadagnato nel 1988, in realtà ha imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti». Cuccia ha poi delle opinioni precise sul debito pubblico: non si risolve il problema con la finzione dell’avanzo primario, ogni anno ci sono 200mila miliardi di interessi da pagare, occorre incidere sul debito vero e proprio, altrimenti si rischia una pesante crisi finanziaria. Il «buco» Gemina 5 maggio 1995. Torno a trovare Cuccia. assai depresso per la situazione italiana. Tutti dicono bugie. Il livello culturale è precipitato. Ha letto su «Le Monde» il resoconto completo, in dieci pagine, del dibattito televisivo Chirac-Jospin (ci ha messo solo un’ora, pur saltando qualcosa): altro spessore, e altro giornalismo. Nel testo sono inseriti box in cui si spiegano i fatti o si mettono in rilievo le contraddizioni. Da noi una simile trasparenza non esiste. Cita come esempio il bilancio Rai: come è possibile registrare un utile di 17 miliardi quando l’anno prima se ne sono perduti 400? Gli chiedo del «caso» Gemina, la holding che fa capo a Mediobanca e Ifi, con Rizzoli-Corriere della Sera come principale partecipazione. Un paio di mesi prima era stato annunciato a sorpresa un (primo) «buco» di bilancio pari a 447 miliardi. Come mai Mediobanca non se ne era accorta prima? Mi dice che è stato lui a rendersi conto che qualcosa nei conti della Gemina non quadrava e di aver messo in allarme i suoi. Ricorda altresì che nel 1984, tramite Mediobanca, la Gemina aveva acquistato per un’ottantina di miliardi la Rcs, un grosso affare, mentre pochi anni dopo l’Ifi aveva venduto alla stessa Gemina la Fabbri per una cifra astronomica, superiore ai 300 miliardi. Da lì era derivata la perdita. Mi fa capire di aver disapprovato l’acquisto della Fabbri, senza poter intervenire perché informato a cose fatte. Sulla questione «Mani pulite», pensa che i giudici milanesi abbiano esagerato e si siano fatti prendere la mano da un facile protagonismo. Cita il suicidio in carcere del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari. Secondo lui, è vero che il livello di corruzione politica era giunto a livelli terribili, però una giustizia così poco rispettosa dei diritti umani è pericolosa. Ancora una battuta pessimistica sugli italiani. Dice che spesso, quando viene a piedi in ufficio (come sempre) e passa per quello che oggi si chiama corso Matteotti, gli torna alla mente – «avevo solo 14 anni, ma ricordo bene» – la scarsa reazione del popolo italiano alla violenza squadristica. In quel momento il fascismo avrebbe potuto essere abbattuto facilmente, prevalse invece l’indifferenza. Gli chiedo che cosa dovrei fare con i miei figli piccoli. Risponde semi-scherzoso: «Li porti all’estero». «In limine mortis» 4 novembre 1999: mia ultima visita. Mancano otto mesi alla sua scomparsa. Conversazione a ruota libera, su vari temi, con Cuccia molto affabile e di buon umore (al telefono, bontà sua, mi aveva detto: «La vedo sempre con grande piacere»). Mi limito qui a poche annotazioni. Mi domanda dell’ex direttore della Ricciardi, Gianni Antonini, e si dice commosso del fatto che questi gli abbia fatto avere un volume di saggi voluto dall’Università di Pavia in suo (di Antonini) onore. Ha letto e apprezzato moltissimo il romanzo Le braci di Sandor Marai («un vero scrittore»), inviatogli in omaggio da Cossiga; meno bello il secondo volume di Marai (L’eredità di Eszter), pubblicato sempre da Adelphi; ha visto che il titolo originale de Le braci era molto più lungo e ne ha chiesto la traduzione esatta all’ambasciata ungherese: «La candela brucia sino al lucignolo»; ha poi comunicato a Cossiga la sua scoperta; trova in ogni caso che l’Adelphi traduca troppo ed è contento anche per questo che abbia deciso di ristampare il volume di mio padre, La disputa del Nuovo Mondo, già edito dalla Ricciardi. Altro libro che gli è piaciuto moltissimo, Casa Rosselli di Giuseppe Fiori (Einaudi). Chiedo come abbia fatto Mattioli ad attraversare come una salamandra il periodo fascista. Dice che Mattioli si reggeva sul suo rapporto straordinario con Menichella (all’epoca direttore generale dell’Iri). Menichella e Mattioli non erano fascisti, bensì intelligenti, mentre i fascisti erano «fessi», e quindi non potevano fare diversamente (Mussolini, che «fesso» non era, lo aveva capito benissimo). Del resto, non erano fascisti nemmeno Saraceno, Torchiani, eccetera. Il suocero Beneduce non era nemmeno iscritto al partito: era l’unico che avesse il privilegio di sedersi al cospetto del duce nella sala del Mappamondo. Artuso Osio (Bnl), invece, simpatizzava per il regime: ebbe però il merito di salvare l’unico busto di Annibale esistente al Mondo (Cuccia lo lesse in un libro francese, forse della Pléiade, e ne ebbe poi la conferma; gli sembra che ora il busto si trovi a Napoli). Merzagora ha lasciato la Comit quando Cuccia vi entrava: giudizio non entusiasmante su di lui. d’accordo con me su Montanelli (simpatico, gran penna, ma da prendere con le molle come storico); cita una recente «stanza» in cui Montanelli mostra di non aver capito quanto sia stato importante, per rafforzare l’unità d’Italia, il fatto che nel primo 900 i meridionali siano stati mandati a fare il servizio militare al Nord, e viceversa. Il colloquio è terminato. Ci salutiamo e Cuccia si infila nella porta che immette nel suo studio. Sull’architrave, leggo il motto: Ars patriae decus, ovvero «L’arte fa onore alla patria». Sandro Gerbi