Sergio Bocconi, Corriere della Sera 12/11/2007, 12 novembre 2007
MILANO
Pessimista sul passato degli italiani: «Nell’intimo sono rimasti fascisti». E sul futuro del paese. Duro con Silvio Berlusconi e Romano Prodi: «E’ imbarazzante dover scegliere fra di loro». Non risparmia critiche a Mani Pulite. Né qualche rilievo al solo giornalista ammesso periodicamente in Mediobanca: Indro Montanelli. Enrico Cuccia è inedito per definizione. Perciò i colloqui riportati ieri da Sandro Gerbi su «Il Sole 24Ore» in occasione dell’imminente centenario della nascita (il 24 novembre) rappresentano uno scoop, tracciando un ritratto del banchiere che di tracce pubbliche, dichiarazioni o interviste, non ne ha volute lasciare.
Gerbi ha insperato accesso al fondatore di Mediobanca dopo che per anni non ha osato avvicinarlo, nonostante il favore di qualche titolo «ereditario»: suo padre, Antonello, ha condiviso per tanti anni con Cuccia il privilegio di appartenere allo stretto entourage di Raffaele Mattioli, il banchiere-umanista che ha guidato la grande Comit. Gerbi scrive un paio di articoli su Cuccia, ricevendo da lui un ringraziamento che tuttavia in principio rientra nel consueto distacco («Non ritengo la mia persona e tanto meno il mio lavoro – gli scrive in un biglietto – così importanti da meritare attenzione »). Poi però il «presidente d’onore» di Mediobanca lo riceve: è il 23 novembre ’93 e sarà il primo di un ciclo di incontri che si conclude il 4 novembre 1999.
Si può dire che il colore di fondo dei colloqui sia il pessimismo. Che orienta Cuccia, come dimostra il rapido passaggio di pensiero dalla Comit («Dai tempi di Mattioli c’è stata una grande decadenza ») all’Italia e alla sua classe dirigente: «Che terribile Paese è il nostro, dove si nomina primo ministro un Goria e si licenzia un Mattioli». Per il fondatore di Mediobanca l’Italia è un «paese di fascisti! » dove abbondano i «mascalzoni », e dove gli industriali «pensano solo ai loro affari ». Perciò a Gerbi che gli chiede cosa fare con i figli piccoli, risponde così: «Li porti all’estero ». La distanza di Cuccia dalla politica qui rivela giudizi senza riserve. A Berlusconi riserva «epiteti irriferibili». Ed è severo con Prodi, che al tempo dei colloqui di febbraio-maggio 1995 è il prossimo avversario del Cavaliere alle politiche: gli rimprovera il vanto di aver risanato l’Iri («Nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti »). Il banchiere trova dunque «imbarazzante » dover scegliere fra l’uno e l’altro. La situazione italiana lo deprime, il livello culturale è «precipitato ». Pensa che i giudici di «Mani Pulite» abbiano esagerato: la corruzione aveva raggiunto «livelli terribili », ma la giustizia irrispettosa dei diritti umani è pericolosa.
Dal resoconto sembra invece di capire che il banchiere dei banchieri, come è stato definito Cuccia, di banchieri abbia preferito parlare senza dilungarsi troppo. Tutto ciò che si può dire sul suo maestro Mattioli appare quasi scontato, talmente stretti sono stati i legami fra i due. Giudizi vengono riservati a Stefano Siglienti («un uomo eccezionale e un grandissimo manovratore, non in senso negativo ») e Cesare Geronzi, oggi presidente di Mediobanca e allora consigliere dell’istituto e al vertice del Banco di Roma («piuttosto discusso ma molto capace»).
L’ultimo incontro, il 4 novembre 1999, precede di soli otto mesi la morte di Cuccia. La conversazione è a ruota libera. Si parla molto di letteratura e il banchiere, lettore straordinario, applaude a «Le braci», di Sandor Marai («scrittore straordinario»), libro regalatogli da Francesco Cossiga. Poi, ancora il fascismo. Dice che Mattioli si reggeva sul rapporto straordinario con Menichella, all’epoca direttore generale dell’Iri: non erano fascisti, bensì intelligenti, mentre i fascisti erano «fessi» quindi non potevano fare diversamente e Mussolini, che fesso non era, lo aveva capito benissimo. Infine l’Italia, letta da Montanelli, «simpatico, gran penna, ma da prendere con le molle come storico»: secondo Cuccia il giornalista non ha capito quanto abbiano fatto l’Italia nel primo Novecento gli scambi fra Nord e Sud nel servizio militare. Così termina il colloquio. Gerbi descrive Cuccia infilarsi nella porta dello studio. Una stanza austera, con alle pareti una sola antica stampa: la pianta di Parigi. Forse un altro segno del pessimismo sul nostro paese, rimasto fascista.