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 2007  novembre 10 Sabato calendario

DAL NOSTRO INVIATO

ISLAMABAD – Sono da poco trascorse le quattro del pomeriggio quando Benazir Bhutto tenta una sortita. Scortata da una decina di attivisti del Partito Popolare esce dalla villa nel centro della capitale dove è costretta dalla sera prima. Dribbla, quasi correndo, una decina di poliziotti che appesantiti dai giubbotti anti- proiettile e dagli scudi stazionano di fronte al cancello e balza su una quattro per quattro blindata che parte verso il filo spinato e le camionette alla fine della strada. La vettura della «pasionaria » della politica pachistana evita con sgommate e frenate i tronchi lanciati sull’asfalto dagli agenti i quali, saranno almeno un migliaio, transennano la zona. Loro gridano, gesticolano, due quasi vengono investiti. Lei replica urlando in urdu da due altoparlanti sul tetto del gippone slogan inneggianti alla democrazia e alla necessità di andare «in massa » alla manifestazione a Rawalpindi.
Ma cosa può fare? L’intera zona è paralizzata dai posti di blocco. Due blindati le si parano davanti. E in realtà lei stessa sa benissimo che il bagno di folla che aveva sperato per Rawalpindi è di fatto fallito. Pervez Musharraf ha impedito qualsiasi movimento alla popolazione. La provinciale tra Islamabad e Rawalpindi è fermata da grandi container messi di traverso. Il tam tam delle notizie via telefonino – i media locali continuano a essere censurati – parlano di un migliaio di arresti tra i militanti del Partito Popolare nelle ultime ore.
Benazir si ferma a un centinaio di metri da dove è partita. Ma con il suo colpo di mano ha attirato l’attenzione delle centinaia di giornalisti, molti stranieri, che dalla mattina stazionano nella zona. Da ogni parte è un ronzio di telecamere, uno spintonarsi tra fotografi, un tentativo tra i reporter di capire ogni parola. Perché lei non è più la politica inesperta e un po’ naif che vent’anni fa tornò dall’esilio per diventare premier. Ha imparato il valore dei media. Dopo il discorso in urdu parla in inglese. Ripete più o meno cose già dette, ma lo fa in modo drammatico.
Si scaglia contro le «misure repressive e dittatoriali di Musharraf », lo invita a «reintrodurre subito la costituzione», annullare il golpe di sabato scorso, lasciare l’incarico di capo dell’esercito e indire le elezioni parlamentari entro il 15 gennaio, come le aveva promesso nelle loro intese di un mese e mezzo fa. «Musharraf ha tradito i nostri accordi di Londra. Colpisce me, pugnala alla schiena la democrazia».
Con gli arresti domiciliari per Bhutto e gli altri leader del Partito Popolare, Musharraf ha impedito la manifestazione di Rawalpindi. E appare chiaro che farà lo stesso nel caso Benazir decida di mettere in atto il piano della «lunga marcia» tra Lahore e Islamabad prevista a partire dal 13 novembre. Ma forse è andata meglio così. I servizi di sicurezza avevano messo in allarme sulla presenza di «22 kamikaze» pronti a farsi saltare in aria a Rawalpindi. La memoria del terribile massacro di Karachi la notte tra 18 e 19 ottobre è nella mente di tutti.
La popolarità di Benazir è in crescita. Mentre Musharraf non ha fatto una gran bella figura. Ora possono riprendere i negoziati. Non a caso nel suo discorso lei stessa se l’è presa con i fondamentalisti filo-talebani che stanno mettendo a ferro e fuoco le province al confine con l’Afghanistan. Un discorso che piace agli americani e che Musharraf non può non condividere. Così l’annuncio in serata che il suo fermo domiciliare era destinato a terminare «tra poche ore» non giunge affatto a sorpresa. Nella notte, il vice commissario ad interim di Islamabad, Aamir Ali Ahmed, ha dichiarato la revoca ufficiale degli arresti domiciliari.


ISLAMABAD – La rampolla dell’antica nobiltà feudale del Punjab. Sangue blu della politica pakistana per eccellenza. E il figlio di immigrati fuggiti nel 1947 dall’India in fiamme, per poi seguire il padre diplomatico tra i quadri medi del nuovo Stato nella prima missione dell’ambasciata di Ankara. Lei, studentessa a Harvard e Oxford formata sul modello della democrazia occidentale al momento delle rivolte studentesche degli anni Sessanta. Lui, salito con pazienza tenace ai massimi gradi dell’esercito, prima del colpo di Stato nel 1999, con in testa l’esempio di Ataturk e la sua aspirazione a uno Stato turco laico in una società musulmana.
Benazir Bhutto (nata nel 1953) e Pervez Musharraf (classe 1943), 10 anni di differenza, due modi molto diversi di concepire il mondo, di pensare il Pakistan. A leggere le loro biografie si trovano per lo più accuse, sospetti, nessuna fiducia reciproca. Musharraf parla di lei come di una «pasticciona corrotta». E racconta soddisfatto il suo rifiuto nel 1989, quando lui era ancora un semplice generale e lei, già premier al primo mandato, gli propose di essere il suo consigliere militare. Benazir lo pone invece sullo stesso piano di Zia-ul-Haq, due generali «ottusi», capaci solo di ragionare con la forza. «Nemici nel passato. Non si sono mai capiti. Eppure oggi i loro destini sono incrociati. Si detestano, non si fidano. Ma sanno anche bene di aver bisogno l’uno dell’altra, se vogliono governare il Paese, almeno in questa fase. Curioso come anche adesso, «al picco della crisi, stiano attenti a non tagliare del tutto i ponti. Dopo ogni scontro, i toni si attenuano e torna lo spazio per il negoziato », osserva Zahid Hussain, commentatore, autore di un recente libro sulla lotta tra il governo centrale e i gruppi islamici radicali. Un’alleanza forzata, artificiale, ma non priva di logica. «A volerla sono stati soprattutto gli americani. Da almeno un anno a Washington si sono resi conto che la popolarità di Musharraf stava precipitando. Non se lo potevano permettere, dopotutto al Pentagono si ritiene che solo lui possa condurre con efficacia la guerra al terrorismo in Pakistan. Dunque hanno pensato che potesse essere aiutato dalla Bhutto », dice Zaffar Abbas, noto direttore del quotidiano in lingua inglese
Dawn (alba). Si spiega così questo continuo duellare in punta di fioretto. I due si accordano a fine settembre. Musharraf le chiede di attendere a tornare nel Paese dall’esilio a dopo che la Corte Suprema abbia dato il placet al suo rinnovo al terzo mandato presidenziale, in barba alla costituzione, e al condono delle accuse di corruzione contro la Bhutto. Entro metà gennaio si terranno le elezioni, lui resterà presidente, senza divisa, lei tornerà premier. Benazir in un primo tempo accetta. Poi si rende conto che sta perdendo di popo-larità, appare troppo passiva, e arriva a Karachi il 18 ottobre, contro il parere di lui. L’attentato contro il suo corteo diventa oggetto di polemiche. Lui l’accusa di leggerezza. Lei avanza il sospetto che tra i ranghi dell’esercito si trovino i mandanti dei kamikaze.
I motivi del «golpe bianco» di una settimana fa li vede sostanzialmente dalla stessa parte della barricata. I giudici stavano per dichiarare anticostituzionale il loro accordo. Musharraf ha fatto il «lavoro sporco» per entrambi. Ma è andato troppo lontano. La società civile, gli avvocati, i giornalisti, si ribellano.
Inizialmente Benazir si mantiene defilata. Invoca la democrazia, ma non menziona specificamente la necessità di liberare il presidente della Corte Suprema, Iftikhar Muhammad Chaudhry. Poi si rende conto che cavalcando l’onda della protesta potrebbe guadagnare punti. Gli altri oppositori, quelli come l’ex premier Nawaz Sharif o i partiti islamici censurati, la accusano di essere «doppiogiochista».