Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  novembre 09 Venerdì calendario

BUFFA

BUFFA Federico Milano 28 luglio 1959. Avvocato. Giornalista. Telecronista. Con Flavio Tranquillo commenta su Sky il basket Nba • «[...] La partita va e loro se la spassano: la descrivono come se fosse una cosa che avviene di striscio e però te la portano dentro. Il momento più bello è sempre l’ultimo minuto: si divertono loro, si diverte la gente. Il palchetto a bordo campo è il salotto di casa, la poltroncina è il divano, la cuffia non c’è, il microfono neppure. La telecronaca è un invito: siediti qui e facciamoci quattro chiacchiere. la passione: loro e di quelli che li ascoltano. Non c’è niente di meglio nello sport in televisione: Caressa e Bergomi, Tommasi e Clerici, Tranquillo e Buffa. Solo che loro sono di più: ché il calcio lo conoscono tutti e il tennis è diventato troppo di nicchia; Flavio e Federico, invece, sono i capi di una tribù trasversale che si trascina un linguaggio e un modo di vivere, che accende Sky e passa la notte con loro, cantastorie di un universo lontano e vicino che odora di playground come di parquet miliardari. La voce è il suono, le parole sono una melodia fatta di numeri e aneddoti, le pause sono i momenti per rifiatare e trovare un’altra cosa da dire. Mai banale. Popolari eppure snob: entrare in quel mondo significa non uscirne più, restare incollati a quel modo di raccontare che trasforma quattro quarti in una serata in confidenza. Il loro basket dev’essere anche quello degli altri. Il pick ”n’ roll in Italia l’hanno portato loro e oggi lo usano tutti. La telecronaca è perfetta. C’è la tecnica, c’è la storia, c’è il gossip: Flavio e Federico adorano parlare di Charlie Parker come il fenomeno dei San Antonio Spurs, ma pure come il neomarito di Eva Longoria. Allora quanto guadagna, quanto spende, quanto calza, quanto tutto ha sempre doppia valenza. Uno che li segue sa: li sente divertirsi, li sente cazzeggiare, li sente impazzire coi numeri. Inventano modi di dire, trasformano un lessico casalingo in uno slang che è diventato prassi. Allora se si sente dire ”per ogni allacciata di scarpe” significa che uno fa le cose con naturalezza disarmante; se uno di loro parla di qualcosa accaduta ”in vernice” vuol dire nell’area colorata dove non si può stare più di trenta secondi. un codice che hanno creato loro e oggi chiunque ami il basket lo conosce. l’identificazione con un telecronista, non con i protagonisti, come quando Fabio Caressa arrotonda il nome di chi segna subito dopo il gol. Però qui si va oltre: è il trionfo del mezzo e non del fine, è la santificazione di quelli che ti fanno vivere un evento che con qualcun altro non sarebbe lo stesso. Flavio e Federico sono i capi del loro mondo. Non c’è il protagonista e la spalla. Cioè formalmente uno è il giornalista e l’altro è il commentatore, però per davvero un ex delegato di produzione degli sport americani su Fininvest e un avvocato. Amici dai tempi dell’Olimpia, perché questa è una storia tutta milanese, per una volta. Parte dal Palalido, dalla voce del palazzetto e da due ragazzi che a pallacanestro hanno giocato poco, ma ne hanno visto moltissimo, tanto, di più. Tranquillo ha fatto anche l’arbitro per un po’, poi s’è messo un microfono sotto la bocca e ha cominciato a raccontare alla radio il basket di Milano. Era la Billy o il Billy come lo chiamavano da quelle parti: Mike D’Antoni, Franco Boselli, Vittorio Ferracini, John Granelli, Dino Meneghin, Marco Lamperti, Roberto Premier, Vittorio Gallinari. Nell’81, quando Flavio ha cominciato a fare il radiocronista la squadra era questa e il coach era Dan Peterson. Federico era lì. E’ tre anni più grande. Il mondo è quello, comunque: la pallacanestro studiata da fanatico, oltre che da tifoso. Quelli così diventano giornalisti per transumanza, perché si trasferiscono naturalmente da una dimensione a un’altra. Sono quelli che tengono ancora conservati i quaderni di quando erano poco più che bambini: si appuntavano giocatore, numero, ruolo, punti, rimbalzi. Ce li hanno da qualche parte e sono pezzi di un’idea che non è tramontata: coi numeri si fa la storia, la voce è la confezione. E nella confezione loro hanno creato qualcosa di nuovo: la telecronaca è un appuntamento, come una puntata settimanale di una serie tv. Si guarda la partita Nba per vederla e pure per sentirla. Perché sai che qualcosa arriverà. Come questo: ”Taglio (credibile) a sinistra contro Brandon Roy, arriva LaMarcus Aldridge. A questo punto sul suo grande scanner scatta: ”Ah Ah… rookies! Saranno anche la base della franchigia futura ma al momento (life is now) sono due rookies…’. Una serie di spin, una serie di finte, di jeb-step… non li ha mandati al bar, li ha tenuti in gelateria…”. Non è che uno debba capire per forza per divertirsi: è un modo per sentirsi parte di quella tribù che la notte tiene il decoder acceso per guardare il basket Nba. Perché quando commentano l’Eurolega non è la stessa cosa: è bello, ma non quanto il superbasket americano. Non pretendono di parlare a tutti e forse neppure lo vogliono: non si sforzano di rendere comprensibile un linguaggio che funziona così com’è. E’ questo che li rende speciali: non banalizzano per farsi capire. Istruiscono, alfabetizzano. come la Rai degli anni Cinquanta, che faceva informazione e cultura. Nella tv del futuro questi due scommettono sull’intelligenza di chi li guarda, che evidentemente è disposto a imparare ogni volta qualcosa di nuovo. Allora la tribù capisce tutto e di più. Esige anche: Flavio e Federico sono un punto di riferimento. Non possono sbagliare, perché non possono deludere. Questo li tiene su, sempre. A un livello che per gli altri telecronisti è irraggiungibile. La tecnica si mischia al gergo: ”Un pochino troppi ”mamma guarda come mi diverto’ nelle facce dei Cleveland Cavs…”. ”Chi è il giocatore Nba che segna più punti in vernice? Shaq? Nooo… Dwayne Wade? Nooo… Potete andare avanti con tutti i lunghi dell’Nba compreso Stoudemire, la risposta è in campo ed è francese…”; ”Infatti è il signore degli anelli. Per la facilità con cui arriva a quelli a tre e zerocinque, con cui ne mette al dito quando vince le finali Nba e con cui farà dire a Eva ”Sì lo voglio” il 7 di luglio. Buffa che parla: nella coppia è il creativo bohemien diventato avvocato o per dovere o per disinteresse. Fino a poco tempo fa scriveva i suoi articoli per le riviste alle quali collabora seduto al tavolo di un piccolo e delizioso caffè nel centro di Milano. Si diverte a ricordare la sua prima partita Nba: ”Certo, si trattava di una gara di preseason, al Capitol Center di Landover, nel Maryland. Era il 1980, e la partita era fra Philadelphia 76ers e Washington Bullets. Philly schierava Doctor J, Julius Erving, mentre Wes Unseld era il centro per i Bullets, che avevano come rookie Ricky Mahorn! Io ero a Washington come studente alla pari e andai alla partita accompagnato dalla signora che mi ospitava in famiglia, che io chiamo ”la mia mamma di Washington’. E’ stata un’esperienza indimenticabile e quando la partita finì, fu molto duro uscire dal palazzetto e tornare a casa. Poco dopo chiamai casa dicendo che mi sarei fermato altri due mesi. E quei due mesi successivi furono assolutamente straordinari. Pur facendo base a Chicago, viaggiai in tutte le città vicine dove c’erano squadre Nba, come Milwaukee, Detroit, Indianapolis, per vedere più partite possibile. C’erano giorni in cui mi svegliavo alle cinque del mattino, facevo colazione con uova & bacon e correvo a prendere il Greyhound verso la mia prossima destinazione e la mia prossima partita. Era un sogno che diventava realtà. A quel tempo, infatti, in Italia le televisioni non trasmettevano immagini o partite Nba e quindi tutto l’universo del basket Nba era qualcosa di sentito dire, immaginato, quasi leggendario. Tra i viaggi che ricordo meglio c’è il mio primo ”Texas Swing’, ovvero la trasferta nel Texas per vedere giocare sia San Antonio sia Houston. Mi ricordo una gara tra gli Spurs e i Denver Nuggets – seguita in mezzo ai tifosi più pazzi di San Antonio, i famosi Baseline Bumps – che finì per essere una sfida personale tra George Gervin degli Spurs e David Thompson dei Nuggets. Alla fine della gara, Gervin ne aveva messi a referto 44 e sono sicuro che lo aveva fatto prendendosi 20 tiri diversi uno dall’altro. La mia passione e la mia dipendenza per la Nba hanno origine in queste gare”. Flavio dei due sembra il più posato. Tranquillo, che se non fosse per il cognome lo sarebbe per il modo di essere. Non al microfono, dove si esalta, dove parla con un ritmo che fa impressione anche a quelli del mestiere. ”Mam-ma M-i-a”: quando comincia a scandire vuol dire che comincia a riscaldarsi. Poi va giù di botto: rapido, ritmato, preciso. Va forte anche quando non c’è Buffa accanto a lui a commentare. Va ed è la voce del basket italiano. ”The voice”, gli dicono. Quando senti la sua, non devi cambiare canale. Chiude sempre così: ”…Con un saluto e un ringraziamento da Flavio Tranquillo”. Prima ti racconta quello che vedi da solo, ma che con lui capisci davvero. Tecnico e passionale: quello è il campo, e lui ti porta dentro, come nella finale Utah-Bulls del 1998. C’era Michael Jordan sul parquet: ”La ruba Jordan e se la prende direttamente dalle mani di Malone. Ultimi quindici secondi, meno uno Chicago, il palleggio di Michael Jordan che ha spazio. Tutti lo aspettano, può essere l’ultima azione della sua carriera: arresto, tiro… Jordan… Jordan. Michael Jeffrey Jordaaaaaan”. Federico era là, accanto come sempre. In silenzio fino all’ultimo suono di una enne infinita. In silenzio prima di parlare. La voce della telecronaca perfetta non si accavalla mai» (Beppe Di Corrado, ”Il Foglio” 9/11/2007).