Corriere della Sera 19/12/1978, Giuliano Zincone, 19 dicembre 1978
Birmania: un ”socialismo”. Corriere della Sera 19 dicembre 1978. Rangoon. Una grossa nave di cemento armato giace incagliata alla periferia di Rangoon, davanti a uno specchio d’acqua verdissima
Birmania: un ”socialismo”. Corriere della Sera 19 dicembre 1978. Rangoon. Una grossa nave di cemento armato giace incagliata alla periferia di Rangoon, davanti a uno specchio d’acqua verdissima. La finta imbarcazione ha due scafi gemelli dove si annidano meraviglie turistiche: un bar, un negozio e il ristorante Karaweik, fastoso e deserto. Questo monumentale vascello immobile potrebbe essere il simbolo della Birmania, un Paese ben più grande della Francia, impantanato nel sottosviluppo: non riesce a prendere il largo nonostante la relativa abbondanza di risorse naturali, il basso costo del lavoro e la popolazione (trentadue milioni) non certo eccessiva. Il Partito (unico) del Programma Socialista, cioè il regime militare che impugna il timone, distribuisce, di tanto in tanto, perentori ordini di partenza. Lancia campagne di lavoro volontario per gli studenti, organizza ”scuole regionali” per formare gli indispensabili quadri tecnici, sollecita (con mille timidezze e sospetti) gli interventi del capitale straniero, rispolvera perfino qualche brandello di iniziativa privata. Fischiano le sirene, garrisce il gran pavese della propaganda, strepitano le campane della sala macchine. Ma la barca rimane ferma. La Repubblica Socialista dell’Unione della Birmania è accerchiata da guerriglie etniche e politiche lungo l’intero arco dei suoi confini, e questa circostanza non facilita il compito dei governanti. Per il resto, la paralisi è dovuta a una somma di contraddizioni e di indecisioni. Il regime di Rangoon è scrupolosamente e seriamente ”non allineato” in politica estera. Ha rapporti cordiali con i russi e legami affettuosi con i cinesi, ma non è affatto ostile nei confronti dell’Occidente. Questa (lodevole) posizione esprime, in teoria, il massimo dell’apertura, ma in pratica si traduce in isolamento poiché gli ”amici” della Birmania, non essendo amici tra loro, stimano prudente limitare al minimo le prove concrete di solidarietà verso un Paese che oggi è in bilico, ma che domani potrebbe compiere sgradite scelte di campo. Anche in politica interna, il governo birmano tenta di elaborare una sua nebulosa ”terza via”: ripensamenti, oscillazioni e rimorsi efficientisti (prontamente accantonati) fanno da contrappeso alle traumatiche nazionalizzazioni dei mezzi di produzione (quattordicimila aziende industriali e commerciali espropriate in due anni), e alle parole d’ordine trionfali e paternalistiche dei militari al potere. Su tali incertezze troneggiano una burocrazia paralizzante, una corruzione più volte denunciata dagli stessi membri del governo e una polizia segreta onnipresente, l’unico organismo davvero efficace in questo panorama stagnante. Pigro e sonnolento, il regime ”socialista” tira avanti ormai da sedici anni dilapidando i patrimoni delle risaie e della giungla. La Birmania sopravvive: non conosce carestie, inondazioni, epidemie come il confinante Bangladesh. La sua economia primitiva non le impedisce di esportare riso e teak, di sfruttare i giacimenti di stagno, rame, tungsteno, di mungere caucciù dagli alberi della gomma. E c’è anche il petrolio. Per ora se ne estrae una quantità irrisoria (trentamila barili al giorno), che però è sufficiente a coprire i consumi energetici di questo Paese parsimonioso, e a nutrire le scarse industrie (materie plastiche, carta alluminio, fibre tessili, cementifici) sparse nelle regioni pianeggianti. La legge prescrive che le (eventuali) joint ventures ”non debbono intralciare il programma economico socialista”. Gli investimenti stranieri, in realtà, non sono tanto scoraggiati dal ”programma” quanto dagli intralci burocratici e dalle defatiganti tortuosità amministrative. Il porto di Rangoon, che un tempo accoglieva circa sedicimila navi estere l’anno, oggi ha ridotto il suo traffico a meno della metà, a causa delle quarantene e delle lungaggini imposte dai sospettosi meccanismi portuali. I cinesi, collaboratori pazienti, stanno comunque costruendo in Birmania una fabbrica di pneumatici. Il gran mercato coperto di Rangoon non è mai troppo affollato. Nel 1976, dopo le grandi purghe che accompagnarono un drammatico rimpasto governativo, i salari minimi furono aumentati del quindici per cento. Ma, dopo l’aumento, i redditi proletari inferiori non superano l’equivalente di diciotto dollari al mese, e il loro potere d’acquisto va diminuendo. Davanti ai negozi la gente si lamenta: un longyi (o sarong), l’indumento nazionale unisex, costa mezzo stipendio. Il riso a basso prezzo dei magazzini statali è di cattiva qualità, e quindi bisogna comprarlo alla borsa nera, pagandolo il triplo. I beni durevoli non si trovano: ”Nessun impiegato onesto può permettersi la bicicletta”, dicono gli oppositori del regime. La pagoda Shwedagon, abbagliante complesso di templi, è la cittadella dell’anima tradizionale birmana. La gente di Rangoon viene qui in pellegrinaggio, accende i bastoncini d’incenso davanti alle immagini del Buddha e prega. Ma qui si danno appuntamento anche gli innamorati, e si gioca, si studia, si mangia. Sotto gli alberi sacri, gruppi di ragazzi immobili masticano involtini di foglie aromatiche, sorridono e fumano. Anche la droga è nella tradizione. Le autorità lanciano periodicamente campagne propagandistiche e militari, distruggono piantagioni d’oppio nel ”triangolo d’oro”, sequestrano quintali di eroina inseguono gli scugnizzi che smerciano grossi sigari di marijuana. Dopo la crociata, il tessuto tradizionale pazientemente si ricompone e tutto torna come prima. Il governo incoraggia gli usi antichi. Le abitudini rurali, i costumi storici, le danze sacre, l’artigianato rituale formano ancora la trama vivente della società birmana. Il ministro dell’Interno occupa anche il dicastero degli affari religiosi. Il presidente ”rivoluzionario” U Ne Win è un ex generale di sessantasei anni, che recentemente ha sposato la bisnipote dell’ultimo sovrano. U Ne Win è sostanzialmente un autarchico, refrattario, per ora, alle tentazioni capitalistiche e ostile alle posizioni marxieniniste dei nuovi regimi del Sud Est asiatico. Amministra uno status quo che sa di letargo e di sabbie mobili, e la gente se ne rende conto. Nel quartiere residenziale, tra le ville dova abitano i gerarchi militari, è in costruzione una statua colossale, che rappresenta il Buddha sdraiato, in atteggiamento di assoluto riposo. ”E’ il ritratto di U Ne Win”, ci ha detto la guida, sorridendo. La borghesia marziale-socialista non ha del tutto dimenticato la dominazione inglese. Partecipa ai campionati di golf interministeriali, fa la fila per giocare a tennis sotto la luce artificiale, esibisce automobili (giapponesi) lucide e quasi contemporanee. Parcheggia volentieri intorno ai grandi alberghi affollati dai turisti, il vecchio ”Strand” coloniale e il nuovo ”Inya Lake” regalato dai russi, dove pullulano sciami di risciò a pedali e splendono barlumi di disinvolture occidentali. Qui, sotto i ventilatori a pale, i diplomatici fanno pronostici. Dicono che non può durare a lungo, questo regime misto di inerzia arcaica e di spericolate statalizzazioni. Sostengono che, prima o poi, la Birmania dovrà decidersi a scegliere l’Occidente, poiché ”è inevitabile che questo serbatoio di braccia a diciotto dollari al mese venga opportunamente sfruttato”. Altrimenti il prossimo pezzo del ”domino” destinato a cadere sotto la spinta comunista sarà proprio il ”serbatoio” birmano. Gli intellettuali di Rangoon non sono affatto d’accordo. Ritengono che il compromesso sia possibile e che basterebbe qualche aggiornamento per raddrizzare la situazione. ”Non ci manca molto - dice un ex imprenditore espropriato -. Abbiamo le materie prime, potremmo esportare di più. Le braccia ci sono, l’alfabetizzazione è elevata, raggiunge il 73 per cento. Abbiamo bisogno soltanto di competenze amministrative, di know how tecnologico, di capacità organizzative. Il guaio è che tutti i posti chiave sono in mano a generali e colonnelli di un’efficienza e di un’incapacità paurose”. D’altra parte, le università sfornano a getto continuo disoccupati intellettuali poco disposti ad accontentarsi delle modeste offerte di lavoro ”intermedie” presenti sul mercato. Per tenere a bada questa massa di scontenti, i giornali intonano peana al ”lavoro produttivo”, stigmatizzano chi ”coltiva aspirazioni eccessive”, ed esortano l’intelligentsia a comprendere il suo ”giusto ruolo”, che consiste nell’appoggiare il governo e nel fornire alla popolazione ”esempi di moralità”. In assenza di strutture produttive efficaci, di incentivi e di concrete prospettive di sviluppo, il programma di ”razionalizzazione socialista della produzione” appare del tutto velleitario. Il decollo economico, per ora, è soltanto una delle molte parole d’ordine che circolano in Birmania, tra la generale, scettica indifferenza. Una di queste parole d’ordine invita le masse a celebrare il ”mese dello sport”, approfittando delle ”fresche mattine rugiadose” della bella stagione. E all’alba, effettivamente, si vede qualche gruppo di giovani scorrazzare, bandiere al vento, per le strade di Rangoon. Ma si tratta di minoranze zelanti. Gli altri rimangono a letto e, ragionevolmente, rifiutano di supplire con l’attività ruspante e la buona volontà alla mancanza di attrezzature sportive vere e proprie. Il volontarismo e l’arte di arrangiarsi dominano il panorama birmano. Negli ospedali, per esempio, le medicine e le siringhe sono rarità. Così i medici di Stato, per tirare avanti, sono costretti a ricorrere ai rifornimenti del mercato nero. Perfino la guerriglia, malattia cronica della Birmania, sembra ancorata alla regola generale dello status quo. Gli unici guerriglieri che non nascondono le loro mire espansionistiche sono i comunisti che combattono nelle province settentrionali del Kachin, forti di un esercito di ventimila uomini e provvisti di armi modernissime fornite dalla Cina. L’armata di Rangoon impedisce a questi insorti di impossessarsi dei centri maggiori, riesce a controllarli senza riuscire a sbaragliarli. Gli altri gruppi ribelli, tutti formati da minoranze etniche, si limitano a custodire con le armi le loro autonomie e i loro traffici illegali. Gli Shan presidiano le loro piantagioni d’oppio, i Karen difendono le ricchezze della loro giungla e l’intensa attività di contrabbando che svolgono al confine thailandese. Anche qui la situazione si mantiene in equilibrio, con gran dispetto dei comandanti dei reparti governativi. Recentemente, uno di loro ha inviato una formale protesta al governo: ”Non chiediamo armamenti superiori a quelli dei ribelli, ma dateci almeno la possibilità di competere con loro”. E’ difficile che le truppe regolari ottengano armi moderne. Secondo gli osservatori diplomatici anche l’equilibrio della guerriglia rientra nella strategia del presidente U Ne Win che, dopo aver stroncato le agitazioni interne di operai e studenti, preferisce cautelarsi da minacce maggiori, mantenendo l’esercito impegnato alla frontiera e lontano da tentazioni eversive. E’ vero che i guerriglieri, per ora, non insidiano seriamente la stabilità politica del Paese, ma è anche vero che le conseguenze economiche del conflitto potrebbero rivelarsi micidiali. I ribelli occupano gran parte della giungla, l’area preziosa dove stanno le miniere, il teak, la gomma, le risorse che dovrebbero permettere alla nave birmana di prendere finalmente il largo. La smemorata Rangoon sembra estranea a questi turbamenti. Nelle stupende serate di dicembre, la gente affolla la pagoda Pujanya, dove c’è il festival d’inverno. Fino all’alba si proiettano film di Bud Spencer in baracche gremite. Si visitano i tesori del tempio, i bambini assaltano le giostre spinte da motori a scoppio fragorosi, i giovanotti si fanno tatuare draghi violacei sugli avambracci. Si beve tè, si riscaldano minestre verdi, pesci e frittelle, si va nei teatritenda dove brillano le danze tradizionali, gli spettacoli di marionette e gli scimmiotti ballerini. I suonatori ambulanti regalano a tutti canzoni malinconiche, si beve birra di contrabbando. Si sopravvive dolcemente, sotto questo cielo crivellato di stelle enormi. I giornali ammoniscono che non bisogna far chiasso, che i lavoratori hanno diritto al riposo, che gli studenti devono preparare gli esami e che tutti devono contribuire seriamente alla costruzione del socialismo. Ma i lavoratori e gli studenti sono tutti qui, a bere, a fumare, a cercarsi una ragazza, a succhiare dolciumi, a cantare. Gente povera, isolata, rassegnata, forse. Finti socialisti, sudditi di un regime poliziesco, equipaggio di una nave di cemento armato, immobile nella laguna. Gente in bilico, in un Paese dove niente si fa sul serio. Al confine, dove le multinazionali fanno sul serio, nove milioni di thailandesi (su quarantaquattro) vivono, secondo la Banca Mondiale ”in assoluta povertà”. A pochi chilometri di distanza, dove i comunisti di Hanoi fanno sul serio, centinaia di persone, ogni giorno, sfidano la morte sul mare, pur di sottrarsi a un’oppressione intollerabile. Giuliano Zincone