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 2007  aprile 26 Giovedì calendario

Ritratto di famiglia con drogato. La Repubblica Dieci Anni 1980. Torino, merc. 10 dicembre. ”Forza vecchia Muti, che qui ce la mettiamo tutta!”

Ritratto di famiglia con drogato. La Repubblica Dieci Anni 1980. Torino, merc. 10 dicembre. ”Forza vecchia Muti, che qui ce la mettiamo tutta!”. La lettera viene da Israele, la scrive un ragazzo di quasi trent’anni a sua madre: la "vecchia" è una bellissima signora, elegante, buonissima famiglia, con tutte le conoscenze giuste; è laureata in psicopedagogia, milita in un partito di sinistra, ha partecipato a tutte le lotte contro la violenza manicomiale: tra loro non ci sono che vent’anni. Nove anni fa ha iniziato una guerra feroce e instancabile contro suo figlio, o meglio contro la volontà, altrettanto feroce e instancabile, di suo figlio, di vivere con la droga. Nove anni sono tanti, un tempo senza soste e senza confini, un vuoto interminabile, dove l’orrore ha spesso prevaricato sulla speranza, dove l’amore è stato spesso violentato dall’odio. In questo scontro disperato e cocciuto, la madre ha usato tutti i suoi privilegi: l’intelligenza e la forza di carattere, il denaro e il potere familiare, la fede politica e l’esperienza di lavoro, la cultura personale e l’amicizia di grandi psicoanalisti e psichiatri. «Ho troppa coscienza dei miei privilegi per tacere davanti alle mascalzonate che si stanno dicendo e facendo sulla pelle dei tossicodipendenti. Non mi importa la disapprovazione di quanti mi vorrebbero, secondo le loro analisi prefabbricate, madre stralunata di povero emarginato dalla società di merda, costretto a drogarsi dalla sofferenza perché la famiglia e il mondo sono cattivi. Naturalmente il figlio scellerato troverà i buoni operatori sociali, che gli danno il metadone (e se poi ci sarà anche l’eroina libera sarà una festa), così lui non dovrà diventare cattivo per procurarsela e saranno tutti felici e contenti». Sono in molti quelli che, come lei, pensano che si stiano commettendo molti errori, sono in molti a cercare inutilmente soluzione ai problemi sempre più tragici, loro e dei loro figli. Non pensa che una storia vera, come potrebbe raccontarla lei, avrebbe più forza di tutte le parole vuote e irreali, che pesano ormai da anni su questo dramma? "Va bene. Se può servire racconterò la mia esperienza, la nostra, mia e di mio figlio, questa lancinante, lunghissima disperazione. Giorni e giorni di orrore, nonostante potessimo contare su mezzi economici, sociali e culturali. Forse farà davvero riflettere, contro ogni conformismo criminale, chi prima o poi dovrà rendersi conto di qual è la realtà della tossicodipendenza". Cosa vuol dire essere genitore di un drogato, o di un tossicomane, o di un tossicodipendente come si dice adesso, come se le parole cambiassero la sua condizione di assoluta infeficità? «Scrivano, scrivano tutti i libri che vogliono, ma nessuno, tranne chi ci è passato, può capire cosa si instaura tra i genitori e il figlio che si droga. Orrore, amore, paura, odio: lo odi perché tuo figlio sei tu, non puoi abbandonarlo e senti che lui ti porta a picco con sé. Lo odi perché lui ti odia ferocemente, ogni volta che ti frapponi fra lui e la droga. Lo odi perché non ti dà tregua, perché il tuo forsennato amore, il tuo bisogno di aiutarlo, pesano come una condanna senza scampo. Lo odi perché si degrada, perché ti fa dire cose terribili, ti fa fare cose che non avresti mai pensato di fare e sempre lo proteggí nonostante l’orrore che ti suscita per la sua estraneità e indifferenza. Per non vederlo in pericolo arriveresti a procurargli tu stessa la droga. Ti odi perché hai altri affetti, cui non riesci più a dare attenzione, lo odi perché vuole morire, ti odi perché non hai il coraggio di ucciderti per non lasciarlo. Ho sentito madri dire: «Piuttosto che continui così, è meglio che muoia». Erano madri amorosissime e io le ho capite. Soffrono come bestie, sia le madri che i padri, ma le madri sembrano reggere meglio la sofferenza perché hanno una sola fissazione: salvare comunque la vita del figlio. Il padre talvolta non sopporta il fallimento sociale perché è un ruolo sociale la paternità: spesso i padri crollano, evitano i figli, talvolta li cacciano oppure si ammalano, a più d’uno viene l’infarto. "Molti a un certo momento smettono di interessarsene, di lottare: non è vero che non li amano, non sono dei reprobi, sono solo persone in cui prevale lo spirito di conservazione. Se gettano la spugna è per sopravvivere, perché il rapporto con un figlio che si droga uccide. E’ un suicidio. Può essere uno dei due genitori a non reggere, per non crepare oppure per salvare qualcosa dal disastro. Ho conosciuto un padre umano, intelligente, degnissimo, che ha chiesto alla moglie di scegliere tra lui e l’altro figlio, e quello drogato, per non perdersi tutti. La madre ha scelto il figlio tossicomane, il padre se ne è andato con l’altro. Sono tornati quando la madre è rimasta sola: il ragazzo è partito, sta all’estero, lontano. Il padre gli manda denaro e lo va a trovare di tanto in tanto per essere sicuro che non ricominci, se no smette di mantenerlo. Ora è la madre che non si sente più di vederlo. Non si possono giudicare questi comportamenti, nessuno può farlo. Gli esperti, gli psicologi, i sociologi, sì, loro lo fanno, sanno tutto, loro. Ricordo quando sui "Quaderni piacentini" teorizzavano che il fumo non era assolutamente dannoso e che drogarsi poteva essere una esperienza interessante e creativa. Contrastarli voleva dire essere repressivi e fascisti. Proprio tra questi teorici della droga positiva, oggi c’è chi paga duramente, magari con il suicidio di un figlio drogato. "In realtà non sanno niente. E’ così facile dare la colpa ai genitori: sbagliano sempre, non capiscono mai; sono troppo rigidi, o troppo permissivi, troppo deboli o troppo forti. Eppure mio figlio un giorno mi ha detto ridendo: «A quelli là, noi gli raccontiamo quello che vogliono, quello che si aspettano da noi, le stesse cose che abbiamo letto sui loro libri, quello che scrivono di noi sui loro giornali: mia madre è possessiva, mio padre è repressivo, la società mi emargina!". Sono diabolici, questi ragazzi, sanno tutto a memoria e per quanto malridotti, conservano una capacità di inganno stupefacente. Certo i cosiddetti esperti fanno in fretta: li vedono qualche ora al giorno, non li hanno addosso, sempre, non li aspettano svegli, ansiosi, tutta la notte. Il terapeuta non segue la degradazione, fa il suo lavoro, è pagato, è uno che a un certo momento smonta, ha la sua vita, le sue dolcezze. Ma i genitori ci stanno dentro e basta, sino a che resistono. Ne ho conosciuti di gran buona volontà, di questi terapeuti, che dopo aver provato una pietà infinita, dopo aver lavorato con tutto il bisogno di aiutare e tutto l’amore possibile, sono diventati durissimi, provano per questi ragazzi un fastidio irrefrenabile, hanno smesso quasi con violenza di occuparsene, sono diventati implacabilmente indifferenti, non reggendo alla delusione, alle menzogne, agli insuccessi. "Non si trova mai, in quello che dicono e scrivono gli esperti, qualcosa che possa davvero aiutare chi si droga o chi è legato d’amore ai drogati. Niente che parta dalla vera esperienza, dalla vera sofferenza, e neppure qualcosa di valido tecnicamente. Il loro approccio è sentenzioso, di facile psicologia, le analisi sono rozze, le risposte ai perché banalissime e una gran faciloneria assicura il lieto fine. Si fermano gioiosamente al risultato che magari un paziente è sei mesi che non si buca. Ma perché non aspettano un anno, due anni, a tirare le somme? Mio figlio non si drogava da quasi due anni e mezzo: mi sembrava una cosa straordinaria: chiesi conferma della vittoria a Franco Basaglia che mi rispose: "Beh, insomma, non so, penso che, forse, è come il cancro, bisogna almeno aspettare cinque anni". Comunque per ora io non conosco nessuno che, se era dentro fino al collo, abbia smesso di drogarsi per un tempo sufficientemente lungo per dare la certezza che la sua esperienza sia finita". Nove anni fa, nel 1971, l’eroina sul mercato italiano non c’è: c’è l’ideologia del fumo e anche la pratica dei buco con ogni tipo di roba. Questo ragazzo ha 20 anni, comincia allora; non sono ancora i tempi in cui si muore di droga a 14 anni, come la ragazza di Sassuolo nel settembre di quest’anno, in cui ci si fa il primo buco a 11 anni, come racconta qualche ragazza della comunità di San Patrignano. Chi è, allora, questo ragazzo della Torino per bene? Uno che ha fatto il ’68 in un liceo pubblico, uno del movimento studentesco, quando era divertente buttare gli ispettori dalla scele, uno che, come tanti, considerava una festa collettiva farsi caricare dalla polizia, girare coi bastoni, arrampicarsi sui monumenti per gettare sassi. Uno che non studiava mai, che era rimandato a settembre ma poi solo una volta bocciato, e agli esami di maturità subito promosso. Bello, benestante, estroverso, vitale, pieno di amici, rincorso dalle ragazze, amato dal padre, amato dalla madre, figlio unico, tutto per lui. "Non avrei mai potuto pensare che avrebbe fatto una scelta di morte. C’è una incredulità totale: di fronte alla droga gli altri si ma lui no, magari ha provato ma poi ha smesso, mica ha l’aria inebetita, al massimo fuma. Il momento in cui l’ho saputo, in cui la sua ragazza, un’attricetta d’avanguardia con le braccia livide di ecchimosi, mi ha detto, ne fa troppa, mi sembra lontano, quasi cancellato: ricordo soltanto la disperazione totale e l’improvvisa percezione di tutto quello che ci aspettava di orribile. Mio figlio era un drogato e la mia vita era finita». Allora i genitori democratici e benestanti, per non interferire nella autonomia dei figli, gli mettevano su il loro appartamentino e gli passavano lo stipendio perché imparassero ad amministrarsi, mentre andavano all’università. "Era il momento delle madri alla sbarra: io stessa, in preda alla psicologia, mi sentivo sempre, chissà perché, un’imputata. Il ragazzo era simpatico, intelligente, ma insopportabile. Farlo, non dico studiare, ma andare a scuola, era un’impresa, convivere, una battaglia. Le mie difficoltà a crescerlo mi avevano trasformato in un bersaglio per ogni tipo di consiglio. Aleggiavano le mie colpe: ero una madre giovane e attraente, separata, stavo per risposarmi, ero piena di interessi, avevo una mia attività. Sentivo intorno a me il rimprovero per il mio carattere forte: forse vivendo noi due insieme, soli, non gli era possibile responsabilizzarsi. Mi suggerirono di farlo vivere per conto suo, del resto aveva vent’anni e a quell’epoca lo facevano in molti. In tutti gli anni seguenti non ho fatto che pensare alle mie colpe: a quelle insinuate, a quelle che io mi attribuivo. Forse lo avevo avuto troppo giovane, non l’avevo allattato, non lo avevo desiderato abbastanza, non gli avevo dato la sicurezza necessaria, la forza che invece mia madre aveva dato a me. "Sapevo a memoria che niente è più dannoso dei genitori che tormentano i figli: eppure ogni volta che mi veniva il dubbio che avesse ricominciato, e purtroppo non sbagliavo mai, cercavo di frenarmi, e poi lo affrontavo: gli dicevo, scusami se sono noiosa, prendimi per una pazza e una malata, abbi pazienza, se io cerco di capire te, tu cerca di capire me, non pensare che non abbia fiducia in te ma ho bisogno di essere rassicurata, ho paura. E lui, talvolta comprensivo, talvolta irritato, sempre bugiardo, mi rispondeva, stai tranquilla, stai tranquilla. lo provavo a credergli, anche se tranquilla non ero mai. Da quando viveva solo, tendeva ad evitare più me che suo padre, che era un uomo dolcissimo, più facile da ingannare, mentre io ero più pericolosa perché sempre all’erta. Quando si faceva vedere poco, pensavo, è perché ha una ragazza, meno male, sta bene e io non devo essere la rompiballe castratrice". Nella casa che gli avevamo arredato io non avevo mai messo piede, era come una scommessa perché tutti mi dicevano, vedrai che non resisti, invece io aspettavo che lui mi invitasse. Era un uomo, aveva i suoi amici, le ragazze, aveva diritto alla sua vita. Ma perché io come madre avevo solo colpe? Perché non dovevo dire mai niente, capire tutto, non oppormi mai, trovare tutto giusto, anche che non dava esami, che stava sempre a letto, o in giro la notte, che non gli veniva in mente, almeno, di lavorare?". Questa estate, da Israele, il ragazzo, che ormai è un uomo ha scritto alla madre, con l’ironia delle parole da vecchio libro di scuola, per mitigare il suo amore: «A parte le polemiche che, come spero noterai, liquido subito e che sono il semplice e sensato rimprovero del contadino e non l’interminabile lagnanza del drogato, tengo a confermarti la mia piena stima e approvazione, soprattutto nell’atteggiamento che hai verso tuo figlio, che mi sembra sufficientemente materno, senza peraltro perdere in calibro critico. Una buona madre dunque, alla quale spero corrisponderà un buon figliolo». La madre dice che forse suo figlio non è morto perché sui consigli degli esperti ha sempre prevalso il suo istinto. Così un giorno, per un impulso irrefrenabile, improvvisamente, per la prima volta, va a casa di suo figlio. Ancora non sa che il ragazzo si droga e lo spettacolo che si trova davanti l’agghiaccia; non l’ha visto neppure nei più brutti film giovanilistici. La porta è aperta, in casa le persiane sono chiuse, è pieno giorno, dovunque ci sono corpi seminudi distesi per terra e addormentati, bottiglie sparse e rovesciate, l’aria piena di fumo denso. "Spalancai di colpo le finestre gridando: alzatevi, banda di drogati! Mio figlio, risvegliandosi, mi guardò con occhi intimoriti, avevo autorità su di lui. Allora credevo che con questa gente si potesse parlare, cercai di essere "dialettica", come dicono loro: vi dite di sinistra e siete qui abbrutiti mentre la vera gente lavora, io vi proibisco di portare mai più le bandiere rosse perché le degradate. E ovviamente tutto quello che seppero dirmi fu «sei soltanto una borghese». Benissimo, e io vi mando tutti in galera, e siccome sono una borghese, mio figlio lo tiro fuori e voi ci restate". Chi erano gli amici di suo figlio? Un gruppo di sbandati, guidati da un folle malauguratamente intelligente. Anche se allora c’era il mito dei giovani anche se ero amica dei ragazzi del ’68, se disprezzavo chi ce l’aveva coi capelloni, devo dire che quelli, li trovavo spaventosi. Infatti c’erano amici anche giovani che mi dicevano, guarda che tuo figlio sta con brutta gente, con quelli che in fondo al corteo cercano l’incidente, sta con i provocatori. Era un gruppo che si chiamava dei Consiliari, che già nel ’71 teorizzava il saccheggio, l’esproprio proletario, tipi anche paradossali, che dicevano, chi festeggia il primo maggio è un coglione perché non si può accettare la festa del lavoro. Li combattevo per la loro ideologia ma rifiutavo un giudizio classista e cercavo di spiegare alla donna che andava a pulire l’appartamento di mio figlio che non era importante che fossero sporchi e vestiti male. "Certo questi "rivoluzionari" mi mandavano in bestia perché erano villani con lei e perché ci chiamavano luridi borghesi mentre gli andava benissimo servirsi dello stipendio che passavamo a nostro figlio. Del gruppo lui era l’unico che disponesse di denaro: gli altri erano figli di artigiani, operai, sottoproletari, oppure erano stati sbattuti fuori dalle famiglie. Gli hanno portato via tutto, anche i calzini, anche le lenzuola. Ma noi chiudevamo gli occhi: questi fatti ci venivano barattati come scelte politiche. Cambiò tutto quando capimmo che si trattava di droga. "Si drogavano, quegli pseudorivoluzionari". Prima di sapere con certezza che suo figlio si bucava, cosa le era sembrato strano? "Aveva continuamente incidenti d’auto, bocciava sempre, l’auto era sempre dal carrozziere. Ogni giorno prendeva multe. Aveva continui sbalzi d’umore. Quando litigavamo era di una durezza nuova, il suo distacco da noi mi feriva. E poi era tetro, scontroso, apatico, lui che era sempre stato così brillante; era diventato logorroico, cavilloso, voleva sempre spiegare tutto, era malinconico, spesso così noioso che una sera un gruppo di miei amici finirono per rifugiarsi ad uno ad uno in bagno, per non sentirlo. "Da quando avevamo avuto la certezza che si bucava, mio figlio sapeva di essere continuamente sotto controllo. Lui e la sua ragazza, che naturalmente mi avevano giurato di avere smesso, dovevano venire a pranzo da me tutti i giorni, quindi erano costretti ad avere cura di sè, ad alzarsi, lavarsi, stare attenti, controllarsi; una spia erano però i capelli sempre sporchi, il tremito delle mani. "Per sentirci più sicuri, lo mandammo a Roma da un amico psicoanalista democratico; poi fu Basaglia stesso a dirmi, guarda che non devi più lasciarlo solo, è sbagliato che viva per conto suo, trova il modo di farlo stare con te. Così fu fatto. Poi, per facilitare il rapporto terapeutico, ci rivolgemmo a un analista di Torino da cui nostro figlio aveva accettato di andare tre volte la settimana: simpatico, bravissimo, onestissimo, peccato che, fatta un’analisi a vista a me, con relativa diagnosi, madre ansiosa e iperprotettiva, non si sia accorto per mesi che mio figlio continuava imperterrito con la droga. Devo dire che in tutti gli anni in cui il ragazzo è stato in analisi, ho avuto colloqui anche con grandissimi psicoanalisti che sapevano tutto del suo passato, nessuno si è accorto che lui continuava. Questo le può spiegare l’incredibile capacità di menzogna, di inganno, di difesa, di chi si droga, e anche l’assoluta inutilità della psicoterapia coi tossicomani se non sono in ricovero". Per sfuggire al vostro controllo, suo figlio aveva espresso il desiderio di cambiare vita? "Certo, tutti i drogati vogliono fare le stesse cose, quelle che si possono fare continuando a drogarsi. Così anche lui voleva andare a vivere in una comune agricola in Toscana, smettere Giurisprudenza e iscriversi a Lettere, ovviamente per diventare insegnante, e dedicarsi al lavoro manuale. Non ci importava che cambiasse facoltà (del resto se l’era scelta lui). Ma la comune no, perché sapevo come sarebbe finita. Lui voleva partire a tutti i costi, lottava contro di noi come una jena, io gridavo così forte che sentivo male in tutto il corpo per lo sforzo fisico, come se mi trafiggessero il torace con delle spade. Suo padre era così alterato che temevo morisse. Non abbiamo permesso che facesse quella scemenza, se no lo avremmo perduto. "Anni dopo, mi hanno raccontato che una volta, per provare l’effetto del cardiazol, era caduto a terra come morto e gli amici tanto affettuosi erano scappati come fanno sempre: ne è venuto fuori perché è forte come un bue. Un’altra volta ci aveva detto che andava in Germania per incontrare, naturalmente, compagni del movimento; invece se ne era andato in Olanda, dove l’avevano messo in prigione, e poi espulso, non per manifestazioni politiche come lui ci raccontò, ma per droga. «Ormai avevo capito che era necessario intervenire drasticamente, definitivamente. Usando il «loro» linguaggio, il linguaggio della "non repressione", gli dissi che volevamo rispettare le sue scelte. Ma che questa scelta doveva essere totale: noi, per la nostra ideologia borghese non eravamo più disposti a dargli un soldo per la droga, e se non accettava di curarsi, neppure per vitto e alloggio facemmo una specie di ricatto: "Anche i tuoi amici non hanno denaro, non vorrai certo essere l’unico privilegiato, prendi la tua valigia e vai, fai la tua esperienza fino in fondo, oppure accetta le nostre proposte". L’idea che se ne andasse lontano, dove non potevo proteggerlo, mi faceva perdere la ragione, e suo padre era più spaventato di me; ma contavo malgrado tutto sul suo legame con noi; e poi, più di una volta mi aveva detto, io non sono di quei coglioni che vanno a morire a Katmandu, perché poi tra l’altro questi tossicomani, con la mitologia della solidarietà e dell’amore, tra loro si disprezzano profondamente e si porterebbero via la camicia". (continua)