Paolo D’Agostini, la Repubblica 18/2/2006, 18 febbraio 2006
ROMA Dice, scandendo le parole: «Quando si parla di Mani sulla città se ne parla per la speculazione edilizia
ROMA Dice, scandendo le parole: «Quando si parla di Mani sulla città se ne parla per la speculazione edilizia. Ma è riduttivo. Come quando definiscono il mio "cinema politico". Riduttivo. Quel film, stia bene attento, è la storia di come viene cambiata a un terreno la destinazione assegnata dal piano regolatore. E la storia di come un imprenditore delle costruzioni, realizzando un illimitato conflitto di interessi, riesce a diventare assessore all´urbanistica da consigliere comunale che era, per potersi servire di quel potere a vantaggio delle proprie imprese. Da qui parte il riconoscimento di qualcosa che era valido ieri, 1963, come è valido oggi. Rendere legale attraverso il potere politico corrotto ciò che è illegale. Non so se mi sono spiegato». Si è spiegato forte e chiaro Francesco Rosi. Sempre sulla breccia, a 84 anni peraltro artisticamente attivi: la regia teatrale di Napoli milionaria prima, e ora di Le voci di dentro, con occhio attentissimo alla sensibilità "politica" dell´Eduardo dell´immediato dopoguerra, fratello stretto del Rossellini della trilogia neorealista: fondatori paralleli, anche se l´uno non sapeva niente dell´altro, di uno sguardo radicalmente nuovo sull´Italia. Il regista non perde un´occasione né un colpo, malgrado quel pizzico di civetteria che gli fa dire: «Ma sono stanco, e poi non mi va di parlare, parlare. Non mi piace». (Gli piace eccome, invece. Non è sua la tentazione di fare come lo zi´ Nicola di Eduardo che sceglie il silenzio «perché è inutile parlare ai sordi»). Passa da un omaggio alla carriera a una laurea honoris causa, alla commemorazione di questo o l´altro dei vecchi compagni e colleghi che non ci sono più; non si sottrae a un dibattito né a un´intervista, oggi su Napoli domani sulla mafia. Non è narcisismo, è senso del dovere. Anche correndo, pazientemente, il rischio di dover subire un´interpretazione riduttiva della sua opera. Del resto, lui è stufo di sentirselo ripetere, ma resta verissimo che ad ogni emergenza napoletana, ad ogni ripresa di discorso sul separatismo siciliano e sulla strage di Portella della Ginestra come momento fondante della moderna criminalità mafiosa, e ad ogni periodico risveglio di interesse per la fine del fondatore dell´Eni, i giornali corrono da lui e corrono ai suoi Mani sulla città, Salvatore Giuliano, Il caso Mattei. Perché, come solo i capolavori (vedi La dolce vita di Fellini, Il sorpasso di Risi, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e pochi altri), quei film - quindi fiction, e fino a prova contraria elaborazioni di una soggettività artistica - sono diventati documenti, più veri del vero. La sua Napoli è rimasta naturalmente, e sempre, nel cuore del suo interesse e al centro della sua passione. E nei mesi scorsi, fitti di rinnovate emergenze cui qualcuno ha avuto la tentazione di far fronte con l´esercito, Rosi non si è fatto pregare a scendere in campo per dire e ripetere ciò in cui crede. Questo: «Purtroppo tutto ciò che ho raccontato molti anni fa è profondamente radicato nell´ambiente e nella città di Napoli. La cui storia è storia di plebe. Napoli ancora oggi vive una tragedia che è conseguenza della mancanza di lavoro. Della mancanza di legalità e di stabilità sociale. E della mancanza di istruzione e di educazione civile alla convivenza e al rispetto per gli altri: le condizioni per il formarsi di una mentalità diversa, capace di opporsi alla sopraffazione; a un degrado e a una corruzione nei quali la criminalità organizzata si è insinuata con violenza feroce e si è fatta dominante a tutti i livelli, malgrado gli sforzi dei tanti cittadini onesti e delle istituzioni. Ma guai a dimenticare che Napoli è questione nazionale». Rosi sa bene che c´è un tessuto di consenso alla camorra perché è l´unica a dare "lavoro". Continua a difendere la sua proposta di aprire le scuole, di tenerle aperte fino a sera perché siano luogo di aggregazione alternativo e sano per i ragazzi. Parlando come è fatale del boom editoriale di Gomorra, il libro-inchiesta di Roberto Saviano, dice che ha un po´ paura della sua possibile, anzi probabile versione cinematografica: «Mi allarma il rischio dell´estetizzazione del terrore». Francesco Rosi rivendica con orgoglio di non aver mai fatto «il cinematografo». Affermazione che va forse decodificata, che ha però un significato preciso. «Io ho fatto cinema della realtà», dice. Combinazione dentro la quale è nascosto il "Rosi touch", il suo tocco. Cinema: «Il linguaggio di comunicazione più potente che esista. Fa sentire e vedere, emozionare e identificare, fa soffrire e sperare insieme ai personaggi. Io faccio il cinema, racconto storie di uomini e di passioni umane, di virtù e difetti». Realtà: «Scelgo fatti che hanno importanza storica, ma non altero la verità. Non inserisco elementi di fantasia per fare il cinematografo. Tutto documentato, riscontrabile storicamente e giudiziariamente. Però non faccio film a tesi o di propaganda. Coinvolgo lo spettatore, che è interlocutore: lo chiamo a partecipare al processo, per capire». Se non fosse chiaro: «Non dico che Mattei è stato ucciso ma porto elementi vagliati che affacciano il dubbio. Non invento. E così per Giuliano. I nomi dei presunti mandanti della strage di Portella non li ho fatti. Perché il film non me l´avrebbero fatto girare, ed era più importante farlo. Non potevo convocarli io se non li aveva convocati il tribunale. Avrei voluto ma mi avrebbero mandato in galera. E Lucky Luciano: gli interrogatori si fondavano sulla documentazione dell´Onu. Io li ho fatti "passare"», ecco la chiusura del cerchio perfetto, «attraverso i personaggi e le facce e le sensibilità degli attori, il grande Volonté per primo. Coloro che comunicano l´emozione. La realtà è talmente piena di spunti spettacolari che non c´è bisogno di ricrearla attraverso la fantasia». E qui, con vezzo tipico del maestro, anzi del "professore" secondo il nomignolo un po´ sfottente che nel tempo il popolo di Cinecittà gli ha affibbiato, Rosi conclude: «Il mio cinema ha questo di diverso. Si fa in tante maniere il cinema, per carità... Però bisogna saperlo fare». Finto modesto, assolutamente cosciente di quanto sia grande quello che ha fatto. E infaticabile. Veramente infaticabile. Di recente lo abbiamo accompagnato in una serie di occasioni celebrative a distanza ravvicinata tra loro. Dall´università di Siviglia che gli ha chiesto di tenere una lezione, all´Accademia dell´immagine dell´Aquila che lo ha voluto per inaugurare il suo anno accademico (ma dietro l´angolo lo aspettano un omaggio primaverile in Lussemburgo e uno parigino in estate). Sfidando (senza caderci) la pedanteria del professore, Rosi è l´unico dei grandi autori italiani che, distinguendosi dalla pur nobilissima stirpe dei commedianti cultori dello scetticismo e di un esibito (ma finto) cinismo, non lesina mai partecipazioni, spiegazioni, confronti, precisazioni. Insomma un comportamento che nasce da una profonda consapevolezza. Quella di essere portatore di grande responsabilità civile. E di essere chiamato ad assolvere a un dovere educativo, didattico: l´introduzione della storia del cinema - del suo patrimonio artistico, civile, emotivo - nelle materie d´insegnamento scolastico è un pallino di Rosi. E una proposta che non si stanca mai di rilanciare. Un´altra è la creazione di un canale satellitare culturale europeo. Del maestro, insomma, ha il talento, e del professore la vocazione. Più forte di lui. Altra cosa che i critici ripetono di lui e di cui lui forse si è stufato. Colpisce che questo giovane e promettente intellettuale napoletano del dopoguerra, formatosi in una temperie piena di belle promesse, da Ghirelli a Patroni Griffi, da La Capria a Vittorio Caprioli, invece di seguire una delle tante strade per cui sembrava tagliato - poteva diventare un uomo di legge, un giornalista di prim´ordine, un leader politico, uno storico - si sia invece ritrovato a venticinque anni o giù di lì accanto a Luchino Visconti ad Acitrezza sul set de La terra trema. «Io non ho frequentato scuole di cinema. Ma è come se le avessi fatte tutte le scuole, le accademie e i centri sperimentali di cinematografia». In effetti un "diploma" così non può che segnare. E Rosi ne è stato segnato profondamente. Ma la cosa rara è che ha portato dentro il cinema, dentro l´arte della regia, trasfigurandole in stile, tutte quelle chances e tutti quei numeri di cui era dotato il giovanissimo intellettuale napoletano del dopoguerra. L´uomo di legge e lo storico, il giornalista e il politico. Caso davvero unico. Quale artista, come lui, riassume in sé lo studio e la comunicazione, la riflessione e l´emozione, quell´insieme particolarissimo che gli ha permesso, ha permesso a molti dei suoi film, di scavare a fondo nei problemi e contemporaneamente di colpire al cuore il pubblico? «Troppo americani», disse qualcuno dei suoi primi film, storcendo il naso. Ma quanti americani hanno pescato dalla sua lezione? Rendendogli peraltro merito: da Sidney Pollack a Oliver Stone. Il suo sguardo è terribilmente esigente. Verso se stesso - con tutta la lecita soddisfazione per ciò che ha fatto, ma sempre da implacabile perfezionista - e quindi verso gli altri. Dal suo santuario-studio in uno dei posti più belli di Roma, a un passo da Trinità dei Monti, legge, consulta, classifica, ritaglia. E telefona. Rosi è uno che, se gli è piaciuto il film magari di un collega anche molto più giovane, non esita ad alzare il telefono per complimentarsi. Quella volta che chiamò Gabriele Muccino questi rimase a bocca aperta, incerto se fosse uno scherzo. Segue, s´informa, commenta, partecipa, s´indigna Francesco Rosi. Non lascia che le ombre dell´età avanzata, del tempo che passa, del rimpianto per chi non c´è più lo sovrastino. E non dice che era meglio prima (anche se qualche volta di sicuro lo pensa, ma chi non sarebbe tentato soprattutto se parte di un gruppo che è stato artefice di una sfilza di capolavori). presente nell´oggi e guarda al futuro con (relativa) fiducia.