Amartya Senn, Corriere della Sera 18/2/2006, 18 febbraio 2006
In Gran Bretagna e in Francia sono state avanzate, di recente, alcune proposte per imporre limiti alquanto severi al fumo nei luoghi pubblici, sollevando vivaci proteste
In Gran Bretagna e in Francia sono state avanzate, di recente, alcune proposte per imporre limiti alquanto severi al fumo nei luoghi pubblici, sollevando vivaci proteste. Ma le tesi sostenute dagli oppositori del divieto esigono un attento esame: da un lato, alcuni criticano l’uso che si fa delle prove statistiche nel legiferare, dall’altro non mancano coloro che invocano la libertà di fare quello che si vuole della propria vita. David Hockney, il celebre artista, sostiene di aver letto «tutte le statistiche» sul nesso causa-effetto tra fumo e malattie, ma osserva che «anche il destino svolge un ruolo, ci sono forze misteriose all’opera nella nostra vita. Le statistiche mediche non afferrano queste sottigliezze, ma la gente sì». Per ribattere a queste affermazioni, occorre pertanto affrontare i dubbi fondamentali che vengono sollevati sulla validità del ragionamento statistico. Qui entriamo in un territorio particolare, per me personalmente, che mi riporta indietro nel tempo. Da studente a Cambridge, negli anni Cinquanta, ascoltavo attentamente il professore Ronald A. Fisher, all’epoca la massima autorità in campo statistico, che metteva in questione l’utilizzo fatto allora da Richard Doll, l’illustre scienziato, delle prove statistiche che collegavano il fumo al cancro. Ero affascinato dal dibattito per molte ragioni diverse, non da ultimo per la mia esperienza personale: avevo fumato per quattro anni, dall’età di 14 anni (al tempo mi sembrava un gesto di sfida assai ragionevole) ma a soli 18 anni ero stato colpito da un tumore alla bocca (per fortuna ero riuscito a debellare il male grazie a dosi massicce di radioterapia a Calcutta, pur riportando conseguenze permanenti). Certo, la mia esperienza poteva essere un semplice caso e un solo caso non prova niente. Ma non vedo come possiamo continuare a invocare le «forze misteriose» e a ignorare invece le tesi che poggiano sul calcolo delle probabilità (Fisher in realtà offriva una spiegazione diversa per il rapporto di causa-effetto osservato, ma questa si è rivelata infondata). Per quanto riguarda la salute pubblica, le statistiche di gruppo sono ancora utili per predire risultati di gruppo con un certo margine di sicurezza. Alcuni esperti di sanità pubblica, come il professore Prabhat Jhat e i suoi colleghi, stimano che ogni anno si verificano oltre 5 milioni di decessi precoci per malattie causate dal fumo. Se non cambieranno le abitudini della gente, il fumo provocherà 150 milioni di morti nei primi 25 anni di questo secolo, che rischiano di arrivare a 300 milioni nel successivo quarto di secolo. Una rivendicazione in apparenza plausibile, basata sul concetto di libertà, è stata avanzata per contrastare i divieti di fumo da Martin Wolf. La gente ha il diritto di fare quello che vuole della propria vita, e anche se esiste il danno provocato dal respirare il fumo degli altri («fumo passivo»), questo di per sé non è un fattore decisivo. Martin Wolf sostiene che «sebbene il danno causato ad altri rappresenti la necessaria giustificazione» per mettere dei paletti alla libertà, «esso non è tuttavia sufficiente». «L’intervento», prosegue Wolf, «dovrebbe essere efficace e dimostrare che i benefici sono superiori agli eventuali svantaggi». Sono d’accordo con Wolf che il concetto di libertà è centrale in questo argomento. Ma come interpretare l’esigenza di libertà quando un comportamento che oggi dà dipendenza limiterà domani la libertà del consumatore stesso? Una volta acquisita, la dipendenza dal fumo è difficile da debellare e occorre domandarsi se i fumatori più giovani abbiano o no il diritto di imporre tali vincoli al loro futuro. Una questione simile era stata affrontata da quel celebre paladino della libertà, John Stuart Mill, quando negava all’essere umano la libertà di vendere se stesso come schiavo. Mill concludeva la sua discussione sulla libertà, nel suo On Liberty, ribadendo: «Il principio della libertà non può esigere che la persona sia libera di non essere libera», e che «non è libertà il poter alienare la propria libertà». Il principio di Mill richiede forse maggiori approfondimenti, ma è importante che le restrizioni sul fumo non vengano vanificate da cavilli di stampo libertario. Un’altra domanda da fare è questa: chi sono esattamente gli «altri», che subiscono il fumo? Il fumo passivo non danneggia solo chi lo respira. Se i fumatori si ammalano di malattie collegate al fumo, allora la società potrebbe decidere che queste vittime delle loro scelte personali non hanno diritto alle cure fornite dalla sanità pubblica, oppure con maggior clemenza (e anche più ragionevolmente) queste persone potrebbero ricevere una qualche forma di assistenza sociale. Nel primo caso, vivremmo in una società mostruosamente rigida e spietata, e per fortuna non vedo né la Gran Bretagna né la Francia avviarsi in quella direzione. Nel secondo caso, gli interessi degli «altri» verranno sicuramente danneggiati tramite la condivisione della spesa pubblica per i servizi sanitari e assistenziali. La logica libertaria della non interferenza, quando viene esaminata a fondo, può avere implicazioni gravissime nel respingere il diritto all’assistenza da parte della società, quando l’individuo si danneggia tramite un comportamento autolesionistico. Se questo principio non viene accolto, allora anche la tesi dell’«immunità» libertaria dall’interferenza risulta automaticamente smontata. Non dobbiamo accettare di restare intrappolati dietro le sbarre innalzate da una interpretazione errata del concetto di libertà. © Amartya Sen 2007 Traduzione di Rita Baldassarre