Luigi Ferrarella, Corriere della Sera 18/2/2006, 18 febbraio 2006
MILANO
«Non mi ritrovo più a fare il giudice in Cassazione così, in una situazione che di fatto impedisce alla Corte di lavorare seriamente. E che ne fa un "sentenzificio", dove la quantità ha il sopravvento sulla qualità. E’ pericoloso continuare a farla lavorare in questo modo: senza volerlo si creano le premesse perché, invece di assicurare la certezza del diritto, la Cassazione con contrasti inconsapevoli di giurisprudenza si trasformi in un supermercato nel quale ciascuno pesca il "precedente" che gli conviene». Via dalla Cassazione, dov’era consigliere da un anno e mezzo. E via dalla magistratura, di cui è stato una figura storica ben prima dell’era di Mani pulite: Giuliano Turone, 66 anni, si dimette con quasi 10 anni di anticipo rispetto alla pensione.
Il giudice istruttore del sequestro Rossi di Montelera e dell’arresto a Milano del capomafia Luciano Liggio, il magistrato che rinviò a giudizio Michele Sindona per l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’inquirente che con il collega Gherardo Colombo (oggi pure in Cassazione) spartì il tremore del terremoto istituzionale insito nella loro scoperta della Loggia P2 di Licio Gelli, nel 2005 dopo anni da procuratore aggiunto di Milano era approdato alla Suprema Corte. Ma ora, dal 26 febbraio, farà il professore di tecniche di investigazioni criminali (su cui scrisse anche uno studio con Falcone) alla Cattolica di Milano.
Che cos’è? Un colpo di teatro, per chi il teatro l’ha sempre praticato fino a veder rappresentato da Marco Paolini un testo scritto con il collega Leo? «Ma no, non me vado sbattendo la porta e dicendo "al diavolo!", tutt’altro». Però si percepisce che nella scelta pesi anche il tarlo di una disillusione: «Ho amato visceralmente la mia professione, avuto molte soddisfazioni, conosciuto grandi persone ». Ma è come se proprio giunto all’apice del sistema, in Cassazione, Turone abbia toccato con mano un nodo che ora, «proprio per tutto l’affetto che ho verso il mio lavoro e il rispetto per l’ambiente professionale e l’istituzione importantissima che lascio, trovo giusto affrontare in pubblico». Un nodo di numeri.
«Tutte le Corti Supreme del mondo – indica Turone – nel settore penale sono fatte per avere un numero molto limitato di cause rilevanti, di cui occuparsi con tutti i crismi. Quella spagnola conta appena 19 consiglieri che in un anno hanno definito 1.319 sentenze, cioè solo 6 a testa al mese. In Francia i giudici sono 41 per 6.733 sentenze in un anno, ovvero 14 a testa al mese. In Italia, invece, le sei sezioni penali della Cassazione, che pure contano ben 120 giudici, nel 2004 hanno definito 48.817 sentenze: significa che in media ciascun magistrato studia, partecipa alla decisione e scrive 407 sentenze l’anno, vale a dire 34 al mese».
Ma da Turone, a sorpresa, non arriva la solita litania sugli organici da aumentare: «Al contrario, è la mole esorbitante dei ricorsi che dovrebbe essere filtrata. Altrimenti, così com’è oggi, una Cassazione snaturata non è più aderente ai principi costituzionali né conforme alle esigenze di uno Stato di diritto: non garantisce più quel ruolo di soluzione delle questioni giuridiche più spinose che possano creare incertezze del diritto».
Di fronte alla crescita a dismisura del numero dei ricorsi anche solo rispetto a 15 anni fa, per Turone «oggi la Cassazione è diventata un "sentenzificio", in cui si privilegia la quantità alla qualità. E che, vanificando la sua funzione di garante dell’uniforme interpretazione della legge, finisce per alimentare fenomeni gravissimi come i contrasti di giurisprudenza inconsapevoli». In se i contrasti sono in qualche misura sani, inevitabili perché legati al naturale evolversi della giurisprudenza. «Certo, quelli consapevoli. Ma non le divergenze inconsapevoli o casuali tra orientamenti della Corte su ricorsi analoghi e in un breve lasso di tempo. Queste dipendono da disfunzioni organizzative».
E’ il caso, ad esempio, degli arresti nelle maxioperazioni, quando alcuni ricorsi dei difensori vanno a un collegio, e altri a un’altra sezione o a differenti collegi. «Risultato: un giorno un collegio decide "bianco" su una certa questione; e poi il giorno dopo magari scopre che un altro collegio, nell’esaminare una questione analoga o perfino la stessa nella medesima vicenda, due giorni prima aveva deciso "nero"».
Una lotteria, proprio in quello che dovrebbe essere il tempio della certezza. «Più di 20 anni fa il presidente della Corte, Mirabelli, lamentava non si ponesse "rimedio alla disfunzione dei contrasti inconsapevoli". E già nel 1998 Marziale e Chiarloni ritenevano la situazione "degradata al punto che la giurisprudenza di Cassazione è ormai paragonabile a un supermercato dove i ricorrenti sono pressoché sicuri di trovare il precedente che a loro serve per argomentare i ricorsi". Beh, è proprio così. Ed è – avverte Turone – una cosa di una gravità eccezionale, ma nessuno esce mai allo scoperto a dirlo e a rimarcare che questo fenomeno mina l’autorevolezza dell’istituzione. Bisogna che a porsi il problema sia chi consente che alla Cassazione penale arrivino 48mila ricorsi l’anno: il legislatore».
Del resto, osserva Turone, «26mila penalisti italiani sono abilitati al patrocinio in Cassazione, in Francia 100. In Spagna, dei soli 4.700 ricorsi in un anno in Corte Suprema, ben 3.400 non passano i filtri di ammissibilità; mentre in Italia forse non si sa che in Cassazione arrivano anche i ricorsi contro i dinieghi ai permessi premio ai detenuti, o le questioni di ricalcolo del cumulo di pene. Questioni come queste dovrebbero trovare altri sbocchi».
E voi giudici, niente da rimproverarvi? «Nella prima sezione, dove stavo io, ci sono giudici da persino 600 sentenze l’anno. Ma il punto è un altro: è che in una Corte Suprema non deve essere così. Perché, con un tale sovraccarico, qualunque sforzo si faccia, alla fine è inevitabile che questioni modeste ma rognose assorbano comunque tempo e risorse al discernimento dovuto invece a quelle davvero meritevoli del vaglio di una Corte Suprema».
E il bello è che, «quando cerco di parlarne con i colleghi, tutti mi dicono sempre: "Hai perfettamente ragione, ma cosa ci vuoi fare...?". E finisce lì. E’ come se prevalesse la rassegnazione di chi ritiene ineluttabile operare in queste condizioni. Magari, questo sì, i giudici si lamentano del troppo lavoro. Ma non basta: deve interessare a tutti che l’organizzazione della Corte Suprema non sia all’altezza dei suoi compiti. Anche i 17 presidenti di sezione sono prigionieri di questa logica della rassegnazione all’ineluttabile, acquisendo inevitabilmente l’atteggiamento della preoccupazione: "Oddio, l’arretrato!". Capisco che scatti il riflesso per cui "primo, mandare avanti la baracca", che è anzi l’altra faccia dello scrupolo e della professionalità. Ma bisogna che si spezzi questo circolo vizioso che finisce invece per essere dannoso per lo Stato di diritto».