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 2007  gennaio 28 Domenica calendario

La tragedia di Leonardo David, mattacchione dello sci

Leonardo David (1960-1985). Lo chiamavano Leo. Era il mattacchione dello sci azzurro, ma soprattutto era l’erede di Thoeni, ancora prima di Tomba. I virtuosismi dello slalom e il coraggio della discesa libera: non gli mancava proprio nulla. Magari non era un maestro di stile, ma Dio solo sa quanto andava forte, l’imprendibile Leo. A 18 anni aveva già vinto la Coppa Europa. Nella stagione successiva, esordio di Coppa del mondo, dopo un paio di piazzamenti si era permesso di battere in slalom sua sovranità Ingemar Stenmark, direttamente sulle piste di casa sua, a Oslo. Una giovane leggenda che l’Italia cominciava a scrivere... Arrivarono i campionati nazionali di Cortina. Leo si buttò giù in discesa libera, veloce come il vento. Una caduta, e l’inizio di un tormento insanabile. Leo avverte forti mal di testa. Nei giorni successivi non si allena nemmeno. Vuole riprendersi per la trasferta americana, dove è atteso ad un test pre-olimpico di discesa. Anche negli Stati Uniti, però, i dolori al capo non lo lasciano. I medici dicono che è tutto a posto, anche se nessuno gli ha mai praticato una Tac. Paolo De Chiesa, amico e compagno di azzurro, ricorda che "Leo non si allena in gigante perché le vibrazioni degli sci sul ghiaccio gli trapanano il cervello". 3 marzo 1979: il test di discesa, una nuova caduta. Leo si lascia andare a pochi metri dal traguardo, improvvisamente, misteriosamente, senza un motivo particolare. Si rialza, arriva in fondo, ma di nuovo crolla: tra le braccia di Piero Gros, stavolta per sempre. Sei anni in coma. Sei anni di strazio. La famiglia che chiede giustizia, lui che dorme un sonno lontano. Tutto finisce il 26 febbraio 1985, nello sgomento di una nazione che non ha saputo difendere il suo talento migliore. Ora Leo riposa nel piccolo cimitero di Gressoney St. Jean, di fianco alla chiesa. Un presepe funerario, con le tombe curate e tanta pietra grigia. Il ragazzo sorride dalla foto seppiata, casco di riccioli in testa e occhiali da sci al collo. Sta tra la nonna e il nonno paterni, sulla lapide attaccata al muro. Sotto di loro, una modesta tomba familiare: al centro, un tronco d’albero in pietra con i rami recisi, sintesi artistica della storia domestica. Qui vengono amici e turisti di passaggio. I fiori non mancano mai. Se ne incarica la zia, sorella della mamma. Lei, mamma Mariuccia, non ha smesso di piangere il suo Leo. Sta qualche chilometro più su, a Gressoney La Trinité, col marito Davide, questo padre indomito che all’epoca si era battuto come un leone per dare almeno un po’ di giustizia alla sua creatura spenta. In una casa di fianco, sopra il negozio di articoli sportivi, c’è anche Daniela, sorella di Leo, oggi madre di tre figlie che ascoltano e riascoltano la grande storia di uno zio campione, mai conosciuto. Da anni mamma Mariuccia si consola con le iniziative intitolate a Leo, gare e piste di sci che sfociano sempre in un caldo abbraccio per lei. Ma su questa tomba, nel cimitero di Gressoney St. Jean, non riesce a venirci mai. Ci viene una sola volta all’anno, il 27 settembre. Un’ occasione immancabile e particolare. Con gli occhi lucidi, mi spiega il senso del rito: "Gli porto un fiore e gli dico: buon compleanno, bambino mio".