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 2006  ottobre 05 Giovedì calendario

Sport libero, doping libero L’espresso, giovedì 5 ottobre Lo scandalo doping, dicono. La bufera doping

Sport libero, doping libero L’espresso, giovedì 5 ottobre Lo scandalo doping, dicono. La bufera doping. Nessuno dice la farsa doping. Ora io cercherò di mostrarvi quanto sia dopato questo argomento, quanta ”brumba” retorica gli inietta la stampa per renderlo più turgido e gagliardo, quanto sconclusionate siano le grida, le denunce e le dichiarazioni intorno alla sua effettiva natura e, al contrario, quanto comprensibili e poco straordinarie siano le pratiche dopanti nel sistema dello sport contemporaneo (non a caso, perfettamente integrato al sistema della società contemporanea). Lo sport contemporaneo è professionistico, gli atleti lo praticano come un mestiere, entrano in una squadra finanziata da uno sponsor e ricevono uno stipendio per dare spettacolo. Lo sport contemporaneo è spettacolare, sopravvive grazie all’evento messo in scena (grazie al rientro ottenuto dagli sponsor in termini pubblicitari). E qual è il teatro che lo mette in scena? Lo stadio? La piscina? La pista di sci? No, la tv. Lo sport contemporaneo ha nella tv la sua arena – nonché il suo polmone d’acciaio – e la tv risponde a un’unica legge, a noi tutti nota come indice di ascolto. Più gente guarda il Tour de France e più il Tour de France diventa importante, più diventa importante esserci, mettersi in luce (investirci denaro) e magari vincere. E da che cosa dipende lo share del Tour de France (come di qualsiasi altro evento sportivo)? Dal livello della prestazione. Se i ciclisti pedalano a trenta all’ora la gente cambia canale. Se al meeting di Zurigo non vanno sotto i dieci netti nei cento, sotto i tredici minuti nei cinquemila, sopra i 2,35 nel salto in alto, la gente cambia canale. La tv, per far sopravvivere lo sport, pretende in cambio alte prestazioni, record, performance da indici di ascolto mai meno che strabilianti – è normale, fa così con tutte le cose che trasmette. La tv ha inventato un sacco di mestieri, ha professionalizzato anche gli ospiti dei contenitori pomeridiani, i concorrenti dei reality-show: con gli atleti ha fatto lo stesso. In cambio chiede solo alte prestazioni, circo, spettacolo. Ora, se il tuo mestiere è correre in bicicletta duecento chilometri al giorno per tre settimane consecutive (l’ultima delle quali tutta in salita) a una media superiore a quaranta chilometri all’ora, e tu non riesci più a stare in gruppo, che devi fare? Prima, se non restavi in gruppo tornavi a fare l’elettricista. Adesso cosa puoi inventarti se il tuo mestiere è questo? Il doping è l’ultimo anello della catena – il fatto che appaia come una scelta faustiana, esclusivamente individuale, fa anch’esso parte della sceneggiata. La catena su descritta ha un bisogno diciamo ”sistemico” di doping e nello stesso tempo si regge su un’idea di sport che lo esclude, un’idea anacronistica ma necessaria per poter vendere l’atleta come unico prodotto naturale in un mondo di corpi artefatti, mutanti, liposucchiati. L’atleta deve migliorarsi senza posa, deve battere record e strabiliare, ma deve anche continuare a farci assaporare la sua purezza, il miracolo di una dieta di pasta e marmellata, insomma, i suoi superpoteri. Per questo i campioni sorpresi con le analisi alterate negano sempre: devono stare al gioco, non possono spezzare da soli questa catena, non possono demistificare il sogno che li ha alimentati e che loro hanno contribuito ad alimentare. E’ una complicità a vita, benché non ricambiata: non appena vieni sorpreso dall’antidoping, lo sponsor ti licenzia. Ivan Basso e Ian Ullrich, campioni giustamente lanciati come favoriti alla vigilia del Tour de France di quest’anno, sono stati scaricati rispettivamente da Csc e T-Mobile quando i loro nomi in codice sono comparsi su un fax del mefistofelico dottor Fuentes, maestro eccelso in emotrasfusioni. Basso e Ullrich, pur bruciati ed espulsi dal sistema, non lo hanno tradito (proprio come non lo tradì Pantani). Senza di loro è stato un tour di gregari, orfano dei primi cinque dello scorso anno, un tour commentato con imbarazzo dai giornalisti che mangiano e dormono negli stessi alberghi dei ciclisti e devono dire un giorno ”viva Ivan Basso” e il giorno dopo ”maledetto doping”. E’ stato un tour senza campioni, e proprio per questo celebrato tappa dopo tappa come il primo tour del nuovo corso, il primo della tolleranza zero, un tour combattuto e appassionante, al termine del quale il vincitore, l’americano Floyd Landis, è stato trovato – ohibò, sorpresa – positivo all’antidoping. Io ci scherzo, ma il suocero di Landis non ha retto all’onta e un paio di settimane fa si è suicidato. Sempre un paio di settimane fa, la grande velocista Marion Jones, cinque medaglie alle olimpiadi di Sydney, è scappata dal meeting di Zurigo un paio d’ore prima che arrivasse la notizia della sua positività all’eritropoietina. La Jones anni fa era sposata con C. J. Hunter, pesista da cui ha divorziato un paio d’ore prima che venisse incastrato dall’antidoping. Nel 2003 non ha avuto lo stesso tempismo e lo scandalo Balco l’ha travolta insieme al suo nuovo compagno, Tim Montgomery, ex primatista del mondo dei cento metri piani. Ecco, lo scandalo Balco, anch’io dico così. Ma non c’è niente di scandaloso in tutto questo. E’ una farsa, uno spettacolo. In questi giorni Marion Jones è stata scagionata da una seconda analisi del sangue, ma la questione resta la stessa: la Jones è una professionista dello spettacolo, deve correre i cento metri sotto i dieci e ottanta, se no cambiamo canale. Perché accettiamo che una rock-star si strafaccia di coca e anfetamine prima di affrontare un concerto e gridiamo indignati all’idea che Marion Jones si dopi? Perché accettiamo che giornali, rotocalchi, programmi televisivi non smettano un minuto di insegnarci come modificare il nostro corpo, dettagliando sostanze, diete, interventi chirurgici, e poi vagheggiamo nostalgicamente una Marion Jones nature? Perché disprezziamo lei e apprezziamo invece una performer come Orlan, che si fa operare nelle gallerie d’arte? Perché accettiamo che vengano legalizzati e trasmessi spettacoli sanguinosi come l’Ultimate Fighting e inorridiamo se la Jones vola sul rettilineo con l’emoglobina alterata? Perché lo sport dovrebbe restare fuori? Sì, avete capito bene, sto caldeggiando la liberalizzazione del doping. Lo faccio perché amo lo sport – amo guardarlo e amo praticarlo – e credo che solo questa soluzione possa realisticamente permettergli di sopravvivere nel secolo dell’audience e degli organismi modificati (un’altra sarebbe quella di tornare al dilettantismo pre-mediatico, ma francamente mi sembra niente più che una sterile utopia). In primo luogo, il libero uso di sostanze dopanti non altererebbe le differenze individuali, semmai le ripristinerebbe tutte (solo con un additivo equamente distribuito) e ci permetterebbe di seguire le gare senza più quel velo di malafede per il quale ogni exploit ci sembra sospetto e ogni grande impresa resta sub iudice. L’atleta sarebbe realmente quello che è, più qualcosina (assunta, come già accade ora, con il proprio assenso e sotto controllo medico). Nulla verrebbe meno del suo meraviglioso gesto, non la forma, non il risultato, non le doti e la fatica per realizzarlo. Una cosa che i soloni dello sport non dicono mai, ad esempio, è che doparsi può anche significare barare ma non significa certo sgobbare meno: le tabelle di allenamento sono quelle per tutti, i sacrifici lo stesso. Voglio dire, per Landis il tour non è stato una passeggiata. Secondariamente, si neutralizzerebbe l’effetto farsesco, resterebbe lo spettacolo dello sport puro e semplice, il polverone tornerebbe a terra – quanta confusione, anche di recente: il testosterone è una sostanza proibita ma non sarà certo servito a Landis per vincere il tour, vista la sua totale inutilità negli sport di resistenza; l’eritropoietina è altamente dopante, ma solo per i fondisti, non per chi, come la Jones, corre i cento metri, eccetera eccetera. Infine, un argomento contro l’ipocrisia e il moralismo: il doping chimico andrebbe liberalizzato perché un doping fisico è già ampiamente praticato alla luce del sole. Gli atleti vengono sottoposti a diete limite, a carichi di allenamento massacranti, a un oggettivo e consapevole maltrattamento del corpo. Un maratoneta pulito, ma costretto a correre 250 chilometri alla settimana, è già in un certo modo dopato, la sua non è più una preparazione ”sportiva”, se capite cosa intendo. Gli scouter dei grandi marchi vanno in Kenia a scegliere runner in erba che poi allevano in autentici campi di lavoro, fino a che i migliori non sono pronti per il ranking mondiale. E’ o non è doping questo? Fino a un paio di anni fa correvo tutti i giorni con un amico medico. Eravamo amatori, se vincevamo una gara al massimo ci portavamo a casa un prosciutto, non aveva senso doparsi, ci divertivamo e basta. Però lui mi diceva: ”Vedi, quelli della Formula 1 sanno che la gente li guarda sperando che si schiantino. Rischiano di morire ogni domenica per sollevare la gente da un pomeriggio di noia e a noi tutti sta bene. Quello che non ci sta bene è che osino alzare il loro livello di ematocrito”. Mauro Covacich