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 2006  settembre 25 Lunedì calendario

Dal Bangladesh a Bari I quattro anni di odissea del piccolo immigrato. La Stampa 25 settembre 2006. Sollevarono Arafat perché era il più piccolo: faccia al cielo, sotto le pale di un elicottero, ostentato agli occhi dei piloti

Dal Bangladesh a Bari I quattro anni di odissea del piccolo immigrato. La Stampa 25 settembre 2006. Sollevarono Arafat perché era il più piccolo: faccia al cielo, sotto le pale di un elicottero, ostentato agli occhi dei piloti. Fu il gesto disperato di 26 naufraghi alla deriva. Quattro anni di viaggio: il piccolo ne aveva già viste tante. Ma su quella carretta era convinto di morire: «Lo eravamo tutti. Il capitano volevano scaraventarlo in mare: aveva sbagliato la rotta. Affamati e assetati, fermi da due giorni senza benzina, imbarcavamo acqua da una falla». L’elicottero lanciò l’allarme e le navi arrivarono in tempo. «I militari mi portarono a Lampedusa e da lì in Puglia, in una comunità per minori, e ora sto bene. Ma se tornassi indietro non lo rifarei. Che senso ha? Cerchi una vita più bella e incontri ogni giorno la morte. Se dal Bangladesh partono in cento, qui, ne arrivano cinque: gli altri sono destinati a morire». Sette lingue Cosa siano, i sentieri che portano in Europa, Arafat l’ha imparato a soli tredici anni. E’ cresciuto accovacciandosi negli autobus, affondando i piedi nella sabbia, pressato nelle automobili, in fuga dai poliziotti, svenendo in una cella. In quattro anni la strada gli ha insegnato sette lingue. Scriveva un diario di viaggio: annotava luoghi, persone, episodi. Poi l’ha spedito a casa: temeva di perderlo lungo la strada. Ora che fa il barista, ha 18 anni e vive in Puglia, dice che questa storia è iniziata tra i banchi di scuola. A nove anni. Per un semplice desiderio: voleva uno zaino più bello. «I miei non potevano comprarmelo. E per la prima volta pensai: i figli degli emigrati in Europa possono permettersi una vita migliore». Il mito dell’Europa gli cresce dentro come un tarlo. A tredici anni convince suo padre. Lascia Dhaka con un amico di famiglia: 4.500 dollari e via. Vola prima in Russia, poi in Macedonia. A Skopjie scopre il suo primo carcere: venti persone in una cella sottoterra e senza materassi. I poliziotti lo terrorizzano: se il passaporto è falso - gli dicono - resti in cella tutta la vita. Un mese di prigione e torna a casa. Ma il pensiero dell’Europa non lo molla. Incontra Mohammed: «Una delle persone più cattive che abbia mai conosciuto». Il padre si convince ancora. Paga 3.500 dollari in cambio di un miraggio: l’Europa in 15 giorni. Il viaggio ricomincia. Attorno solo sabbia Nel 2001 vola tra l’Asia e l’Africa occidentale. Arafat atterra a Bamako: capitale del Mali. Vive per due mesi con l’amico Parves in una casa presa in affitto. Poi il tradimento: Mohammed sparisce con i passaporti. «Telefonai a casa: mia madre piangeva, mio padre voleva spedirmi dei soldi, ma a patto che tornassi. Rifiutai. Se fossi tornato, i miei fratelli e le mie sorelle, avrebbero pensato che sprecavo una fortuna senza motivo. E poi: volevo vedere come andava a finire». Parves contatta un conoscente in Germania che gli spiega il tragitto: Mali, Niger, Algeria, Marocco e infine Spagna. I passaporti arrivano dal Bangladesh e i due si spostano a Gao: c’è un autista che fa la spola con il Niger. Cinquecento dollari a testa, 10 litri d’acqua, 3 litri di latte e qualche pacco di biscotti: destinazione Njamei. Sette giorni di viaggio. Nell’auto salgono in venti. Pressati gli uni sugli altri. Ma il terzo giorno il trabiccolo va in panne. «Intorno a me c’era solo sabbia. Un africano mi tolse quel po’ d’acqua che m’era rimasta: restammo 24 ore tra le dune. Poi arrivò la polizia». Con la polizia, Arafat e Parves arrivano in Niger, dove ottengono dei documenti e decidono di raggiungere l’Algeria. A Niamey, procacciatosi il visto dall’ambasciata algerina, contattano un altro autista: il viaggio costa 250 dollari a testa. «Per aiutarmi i miei vendettero un pezzo di terra e una collana d’oro. Partimmo con 10 litri d’acqua a testa e niente da mangiare. Molti erano senza documenti: viaggiavamo nel deserto di notte sperando di evitare la polizia». Ma la polizia li circonda. «Parves dove sei? - urlavo mentre fuggivo - Non l’ho più visto. In quella fuga persi tutto: un amico, i soldi e i numeri di telefono per rintracciare i miei genitori». Tra le carceri visitate, quella algerina, è la peggiore. Gli rasano i capelli. In cella sono quaranta. «Giusto lo spazio per stare in piedi: lì facevamo pipì e tutto il resto. Mischiavano il cibo con le medicine: perdevo le forze, mi intorpidivo, decisi di non mangiare più. Ci picchiavano ogni giorno e quando si stancavano, i poliziotti, passavano a noi il bastone: "Ora colpisci tu". Ho rifiutato. Mi hanno preso a schiaffi. Dopo tre giorni sono svenuto. Uno del Camerun ha preso a pugni la porta urlando: "Sta morendo". I poliziotti lo hanno picchiato. "Non fa niente", diceva mentre mi portavano via: "l’importante è che tu non muoia"». Senza bere né mangiare Dopo due mesi di carcere, i poliziotti lo riaccompagnano alla frontiera. Arafat torna in Niger a piedi. Viaggia nel deserto per due giorni, senza bere né mangiare, prima di raggiungere Madama. Poi arriva ad Agadez, dove conosce Alì, un libico che lo porta in casa: «In moschea ho trovato finalmente un figlio maschio», dice Alì alla moglie. Ha sette figlie femmine. Gli propone di sposarne una. «Sono troppo piccolo», risponde Arafat. Per un anno lavora nella sua fabbrica di zucchero: conta i cartoni. Poi si decide: vuole raggiungere l’Europa attraversando la Libia. Sceglie la via più pericolosa: quella che porta da Djanet ad Al Barqa. «La moglie di Alì, per me, aveva risparmiato dei soldi. Me li diede. Insieme a una borsa con acqua, frutta e latte in polvere». Arafat s’accoda a una lenta carovana di venti persone. Si muovono a piedi, seguendo la guida che li condurrà ad Al Barqa, per cento chilometri e otto giorni di viaggio. Il quarto giorno arrivano i rapinatori: «Spararono in aria: ci sdraiammo e lasciammo i soldi sulla sabbia. Mi tolsero anche la macchina fotografica. Cercai di salvare i rullini e mi presero a schiaffi. Gli altri li colpivano con le cinghie delle cinture: sulla faccia». Il viaggio riprende e lungo il tragitto, Arafat, vede scheletri umani spuntare dalla sabbia. Ciò che restava di altri viaggiatori. Arafat capisce che è una lotteria mortale: non molla la guida di un millimetro, dorme accanto a lui, aspetta che si svegli per seguirlo. Dopo una settimana spuntano le luci di Albarqa: «Le gambe affondavano nella sabbia, non riuscivo più a muoverle, un africano mi portò sulle spalle. Eravamo partiti in venti: arrivammo in otto. Gli altri li abbiamo persi lungo il viaggio». «Sono tua madre» In Libia Arafat torna in cella, a Seba, dove resta due mesi. Il direttore del carcere gli offre un lavoro in campagna. Ci resta un anno e mezzo: risparmia 4mila dinari finché scopre come arrivare l’Italia. Passa da Tripoli, finisce a Zuara, dove resta chiuso in casa per un mese. Ormai ha 17 anni. La meta sembra vicina. Poi il mezzo naufragio, il centro di Lampedusa, la comunità per minori che lo accoglie in Puglia. E un giorno squilla il cellulare. «Sono tua madre». Le parole gli si strozzano in gola: Arafat riattacca per l’emozione. Poi trova la forza di richiamarla: «Sto bene, sono in Italia». Ha già spedito a casa 1.300 euro: "Devo saldare il mio debito". Il suo debito: quattro anni di viaggio, sei mesi di carcere, circa 30mila chilometri e 10mila euro. Dhaka - Palermo: 2.700 euro. Basta un solo giorno di volo. Se hai i documenti in regola. Sorride: «Ora ce li ho». Già. Minorenne per un soffio. Altrimenti l’avremmo espulso: biglietto di solo andata. E chissà quale ritorno. Antonio Massari