La Stampa 26/09/2006, pag.12 Domenico Quirico, 26 settembre 2006
Francia, la vergogna è ancora nera. La Stampa 26 settembre 2006. Parigi. Nel 1996 Amadou Diop, un vecchio senegalese sottile e paziente, fece causa alla Francia: perché la sua pensione per aver sputato sangue contro i soldati di Hitler gridando «Vive la République» era ridicolmente «cristallizzata», come recitava la legge, al 1960, data dell’indipendenza
Francia, la vergogna è ancora nera. La Stampa 26 settembre 2006. Parigi. Nel 1996 Amadou Diop, un vecchio senegalese sottile e paziente, fece causa alla Francia: perché la sua pensione per aver sputato sangue contro i soldati di Hitler gridando «Vive la République» era ridicolmente «cristallizzata», come recitava la legge, al 1960, data dell’indipendenza. Mentre quella dei suoi commilitoni francesi aveva travettisticamente marciato al ritmo delle rivalutazioni e degli «scatti». La sproporzione, clamorosa, era così diventata di uno a dieci. Centomila ascari come lui, in 24 paesi che un tempo imperlinavano l’impero coloniale, potevano constatare quel peccato flagrante di «inégalitè». Nel 2001 il consiglio di Stato gli diede ragione. Ma Diop era già morto, con le sue rabbie e le sue nostalgie. Restavano gli altri, a sperare. Invano. Per strozzare le loro aspirazioni, legittime ma sempre moleste, a Parigi sostituirono il concetto di eguaglianza, che pure sta scritto su tutti i frontoni degli edifici pubblici, con il più tenero diritto all’«equità». Ovvero calcolarono le pensioni dei reduci in base al costo della vita dei rispettivi paesi: un francese prendeva 630 euro al mese, un senegalese 230, un tunisino 61. Accade per fortuna che un libro, o un film, strappino talvolta a un intero Paese il sordido sollievo della ipocrisia e dell’oblio. Con «Indigènes» girato da Rachid Bouchared la Francia, ligia spesso alla consegna della omissione e della reticenza, è stata messa di fronte ad un’altra delle sue balbuzie storiche. Nessuno le ha mai detto così chiaro e così tondo che a liberarla, nel 1945, furono proprio quei «bougnouls», i magrebini, quei «negri» che lei, padrona arrogante, disprezzava e maltrattava da almeno un secolo. A cui ha così ingegnosamente negato la pensione. I nipoti di quei benemeriti eroi li ha rinchiusi nei ghetti delle banlieues, e non li trova degni neppure di un pezzo di carta che eviti loro il setaccio ipocrita della immigrazione «scelta». Cioè abbastanza perché il film sia diventato un evento politico ancor prima di uscire, domani, nelle sale. La storia esemplare di quattro «sudditi» algerini che vengono a salvare la madrepatria occupata è come un incendio che voracemente sta bruciando un’immensa prateria di silenzi e alimenta, dall’altra parte, fervide passioni identitarie. I ragazzi delle scuole di periferia a cui è stato mostrato hanno capito perché hanno il diritto sacrosanto ad essere francesi come gli altri. Finora per sentirsi orgogliosi dovevano pensare a Zidane. «Jacques, bisogna fare qualcosa!» pare abbia esclamato una commossa Bernadette Chirac dopo aver visto in anteprima il film a fianco del regista, figlio di immigrati algerini, e al protagonista, Jamal Debbouze, anche lui discendente di un ascari. Adesso Jacques sta appunto «facendo qualcosa»: convertendo in denaro il rimorso della Francia. Sì, aumenterà le pensioni ai superstiti, e sono ancora ottantamila, di quella trascuratissima armata di liberatori. Nel 1943 le forze del Male non erano mai state così vicine alla vittoria, i francesi brindavano a Pétain nei bar di Vichy mentre De Gaulle che aveva deciso di morire in piedi con quanto restava dell’onore nazionale penava a trovare reclute. Allora si presentarono loro, quelli che la burocrazia coloniale chiamava «gli autoctoni», gli indigeni: in 130 mila, bestiame obbediente e fedele con cui alimentare il tritacarne della vittoria. Come i quattro protagonisti del film, sbarcarono in Sicilia, bestemmiarono al gelo di Cassino, si riscaldarono al sole della Provenza, arrivarono al Reno, sacro confine della «patria» che si iludevano a quel punto fosse un po’ loro. Equipaggiati con gli scarti americani, nutriti con avarizia, gettati nella mischia a manciate generose senza badare alla tattica, i «tirailleurs» senegalesi, i «tabors» marocchini, gli «spahis» del bled algerino non ci sono mai nel lieto subbuglio delle foto ricordo: quelle immortalavano le truppe «bianche». Quando tornarono a casa, in Algeria, nel 1945, invece di ricevere medaglie furono disarmati. I francesi, quelli veri, che avevano tifato cocciutamente per Pétain, stavano massacrando i loro parenti che credevano di aver diritto alla riconoscenza. «Ma non ho fatto un film per la comunità magrebina - insiste Bouchareb - un atto di affermazione della nostra identità francese, per tutti noi figli della immigrazione. la mia storia, la storia dei miei genitori, sono i racconti che sentivo durante la mia infanzia, un omaggio a questi uomini che amavano la Francia e che i loro nipoti e l’insieme dei francesi ignora». Eppure c’è una parte che il film, ovviamente, omette. La possono raccontare, purtroppo, coloro che vivevano nei paesi del sud Italia che gli instancabili «tabors» magrebini dell’elegante generale Juin attraversarono inseguendo tedeschi. Erano quelli giorni foschi e grandi, senza pietà: in cambio del rancio infame, delle scarpe di corda da usare sulla neve avevano il diritto di saccheggio. Ma quella è un’altra storia: da raccontare. Domenico Quirico