Alberto Alesina, Il Sole-24 Ore 22/9/2006., 22 settembre 2006
Quel che Stiglitz non ha detto. Il Sole-24 Ore, venerdì 22 settembre Anche su questo giornale il Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz ci ha ripetuto ciò che sostiene spesso, cioè che la "globalizzazione ha fallito" (si veda Il Sole-24 Ore del 3 settembre)
Quel che Stiglitz non ha detto. Il Sole-24 Ore, venerdì 22 settembre Anche su questo giornale il Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz ci ha ripetuto ciò che sostiene spesso, cioè che la "globalizzazione ha fallito" (si veda Il Sole-24 Ore del 3 settembre). Provate a raccontarlo a quelle centinaia di milioni di cinesi usciti da un’estrema povertà grazie al boom di esportazioni in tutto il mondo, partito quando la Cina si è aperta al mercato. O agli indiani del Bangalore, dove fiorisce un’industria high tech emigrata dagli Stati Uniti. O a quelle ragazze, sempre indiane, che rispondono al telefono stando nel loro Paese quando prenotate un volo da Boston a New York. O ai sudcoreani il cui reddito pro capite era pari al 12% di quello degli Stati Uniti nel 1965 e oggi è al 50%. Ma non è solo l’Asia a beneficiare della globalizzazione. Questa settimana l’Economist ha fatto notare, rielaborando le statistiche dell’Fmi, come ormai i Paesi emergenti producano più del 50% del Pil mondiale (tenendo conto delle differenze di prezzi fra Paesi, cioè a parità di potere d’acquisto) e tra vent’anni saranno ai due terzi, se le attuali tendenze continueranno. Già si parla (giustamente) di dare più spazio ai Paesi emergenti (ma ormai quasi emersi!) nelle organizzazioni internazionali e l’Europa che è sovrarappresentata dovrà far spazio. Tra non molto i G-8, gli otto Paesi con le più grandi economie, comprenderanno Cina, Brasile, Russia e India, a scapito di Canada, Italia, Francia e Gran Bretagna. Ma non è solo questione di dimensioni. Se il Vecchio continente non riprenderà a crescere, sarà superato in termini di reddito pro-capite da qualche Paese emergente, come Cile, Messico o Corea del Sud. In un paio di recenti lavori scientifici pubblicati sul prestigioso Quarterly Journal of Economics, l’economista della Columbia University, Xavier Sala-i-Martin, ha dimostrato, statistiche alla mano e in modo convincente, che i Paesi poveri nel loro complesso stanno crescendo più in fretta di quelli sviluppati e che la disuguaglianza tra i più poveri e i più ricchi nel mondo sta scendendo. Dal 2000 a oggi il tasso di crescita del Pil pro-capite nell’economia mondiale è stato del 3,2% annuo, una velocità straordinaria mai vista prima e trainata dai ritmi di espansione dei paesi emergenti, molto più rapidi di quelli dei paesi Ocse. Certo, c’è chi non riesce a sfruttare i benefici della globalizzazione come molti Paesi africani, ma spesso per colpa di Governi corrotti e guerre, oltre a condizioni climatiche e ambientali estremamente difficili. Ma anche in Africa c’è qualche storia di successo (come ha notato Fabrizio Galimberti sul Sole-24 Ore del 19 settembre) e ce ne sarebbero di più se l’Europa abbandonasse la sua politica agricola protezionista. E allora perché Stiglitz, assieme ad altri come lui, continua a ripetere che la globalizzazione ha fallito? Perché Stiglitz è diventato quello che Richard Posner definisce in modo vagamente negativo un public intellectual, cioè quel tipo di studioso che ha abbandonato la ricerca accademica e si limita a pontificare sui mass media. Dopo essersi meritato ampiamente il Nobel per i suoi studi sull’economia dell’informazione e su molti altri campi – ma non, si badi, per apporti alla teoria dello sviluppo o del commercio internazionale – Stiglitz si è trasformato appunto in un public intellectual critico del mercato, del liberismo, del Fondo monetario e della politica economica americana. Ai quali ha sferrato attacchi vetriolici che in Usa gli hanno fatto perdere gran parte della sua credibilità, non solo negli ambienti accademici ma anche tra i policy makers di qualunque colore politico. Ma allora perché Stiglitz è così ascoltato e amato dalla sinistra non liberista europea e dai no global? Perché con la sua autorità da premio Nobel racconta ciò che parte dell’intellighenzia europea si ostina a voler credere: che il capitalismo a guardar bene non funziona, che i mercati vanno regolati e diretti, che gli Stati Uniti e le loro multinazionali sono il vero nemico. Che cosa c’è di meglio che citare un premio Nobel americano quando si vogliono ripetere critiche ideologiche all’economia di mercato? La globalizzazione ”deve” fallire altrimenti i sogni vagamente socialisti di questi intellettuali andrebbero in frantumi. Stiglitz è una boccata di speranza contro tale fallimento. I mercati non sono perfetti e tutti vorremmo che la povertà sparisse dalla faccia della Terra più in fretta. Ma, nonostante quello che cerca di farci credere Stiglitz, la povertà sta diminuendo. Mai nella storia dell’umanità si sono fatti tanti passi avanti in questa direzione come dall’avvento del capitalismo e del libero mercato. Il livello di vita di un operaio americano del 1800 era simile a quello odierno degli abitanti di Paesi molto poveri. Sicuramente né l’Fmi né questa amministrazione Usa sono inappuntabili. E qualche multinazionale ha rovinato i produttori locali, che però avranno trovato lavoro nella multinazionale stessa. Nessuno, però, ci ha mai spiegato, nemmeno Stiglitz, quale sia l’alternativa alla globalizzazione e all’apertura dei mercati. Alberto Alesina