Andrea Bonanni, la Repubblica 20/9/2006, pagina 4., 20 settembre 2006
«Questo governo sta sbagliando, pericolosa voglia di dirigismo». Intervista a Monti la Repubblica, mercoledì 20 settembre Professor Monti, parliamo di date: la parabola di Tronchetti Provera in Telecom comincia nel 2001, all´indomani della vittoria elettorale di Berlusconi, e sembra tramontare nel 2006, all´indomani della sconfitta della coalizione di centrodestra
«Questo governo sta sbagliando, pericolosa voglia di dirigismo». Intervista a Monti la Repubblica, mercoledì 20 settembre Professor Monti, parliamo di date: la parabola di Tronchetti Provera in Telecom comincia nel 2001, all´indomani della vittoria elettorale di Berlusconi, e sembra tramontare nel 2006, all´indomani della sconfitta della coalizione di centrodestra. Lei crede alle coincidenze? Nel suo studio di presidente dell´Università Bocconi, Mario Monti sorride. «Pur avendo seguito queste vicende, non mi ero ancora accorto di questa coincidenza. Credo e spero che sia solo una coincidenza. Se non lo fosse, il quadro già preoccupante che emerge da queste vicende sarebbe ancora più brutto». Ci crede, o ci spera? «Non penso che esista alcun nesso tra le iniziative dei grandi gruppi imprenditoriali e i «programmi dei 100 giorni» delle varie coalizioni di governo». Eppure... «Non guarderei al ciclo politico italiano, ma al ciclo internazionale delle telecomunicazioni. Nel 2001 il settore era ancora in grande effervescenza. Mentre oggi, per effetto dell´evoluzione tecnologica e del graduale affermarsi delle regole di concorrenza, è in corso una fase di difficoltà e di ripensamenti strategici in diversi grandi operatori». Ma lei parla ugualmente di situazione preoccupante. In che senso? «E´ preoccupante per l´economia, perché emerge, almeno sotto il profilo finanziario, una difficoltà di uno dei maggiori gruppi privati italiani. preoccupante per la politica, perché rivela grande discordanza, con elementi di confusione, nella visione che le principali forze politiche hanno di una economia di mercato moderna e del rapporto tra potere pubblico e mercato. Preoccupante, infine, per il rapporto tra politica ed economia». Un rapporto malato? «Non occorre sapere fino in fondo come sono andate davvero le cose, e in questi casi nessuno è in grado di conoscere la completa verità, per rendersi conto dell´esistenza di relazioni non corrette tra mondo economico e mondo politico. E questo ancora una volta ha fatto fare passi indietro nella considerazione che l´opinione pubblica internazionale ha del sistema-Italia». Non le sembra di essere troppo severo? Non è che all´estero i politici si disinteressino delle sorti delle grandi aziende, soprattutto in un settore delicato come quello delle telecomunicazioni. Un governo, in una economia di mercato, ha o non ha il diritto di preoccuparsi di quello che succede alle grandi imprese private del suo Paese? «In Europa di fronte a grandi gruppi in difficoltà le reazioni dei governi sono diverse. In paesi come la Gran Bretagna si tende a lasciare che il mercato risolva le situazione senza preoccupazioni di difendere la «britannicità» delle imprese. Altrove lo Stato si fa carico più da vicino di seguire la situazione e di trovare soluzioni. Ma in genere in quei casi si assiste ad una convergenza di analisi tra l´impresa in questione e il potere pubblico. Credo sia molto raro il caso in cui la politica si avvicina ad una impresa in difficoltà in termini tanto conflittuali da dare luogo ad una violenta esplosione come questa». Vuol dire che l´autorità politica deve sempre andare in soccorso del management dell´impresa, anche quando questo si è rivelato inefficiente? «No. Certo che no. In Italia un governo che pure non ha brillato per chiarezza dei rapporti tra pubblico e privato, come è stato il governo Berlusconi, in occasione della crisi Fiat non fu preso da attivismo, escluse forme di sostegno da parte dello Stato. E questo determinò uno sforzo particolare degli azionisti di riferimento, delle banche, del management, che ha consentito alla Fiat di riprendere un percorso di buona salute economico-finanziaria». E invece sul caso Telecom? «Al di là del piano di cui si è tanto parlato, di incerto status e paternità, preoccupa un ribollire di idee e un ritorno di tentazioni ad allargare il settore pubblico». Sbagliate, secondo lei? «Credo che in questo momento occorra fare con grande nettezza una scelta che rafforzi le basi dell´economia di mercato in Italia. Da una parte lo Stato non deve caricarsi di oneri e ambizioni di maggiore presenza nell´economia, né cedere a tentazioni dirigistiche che spesso non funzionano neppure in sistemi più efficienti, come quello francese. D´altra parte questo non significa una rinuncia all´esercizio - che anzi va rafforzato - dei poteri pubblici. Questo però deve passare attraverso politiche che accrescano la concorrenza dei mercati e che potenzino le autorità antitrust e di regolazione. Un passo importante in questa direzione è avvenuto con il decreto Bersani, che ha messo in posizione centrale il cittadino-consumatore». Solo questo deve essere il ruolo della politica? «Penso che la buona politica, in Italia, dovrebbe andare in questa direzione. Cercare il consenso, come è suo compito, agendo in favore dei consumatori e non invece sviluppando rapporti «di vicinanza» o «amicizia» con questa o quella impresa, questa o quella banca a scapito della distinzione dei ruoli». Solo colpa della politica, allora? «Certo le difficoltà o le crisi delle grandi imprese danno spazio alle nostalgie di un maggiore ruolo della mano pubblica, nel senso di una presenza anche invasiva dello Stato nell´economia. E probabilmente è vero che le privatizzazioni degli anni Novanta avrebbero potuto essere fatte meglio. Ma è vero anche che c´era urgenza di privatizzare per alleggerire la condizione della finanza pubblica, disastrata da un periodo di grande espansione del settore statale. Le regole europee, sottoponendo a disciplina sia il bilancio pubblico sia gli aiuti di Stato, hanno costretto a ridimensionare rapidamente questa presenza abnorme. Forse, con più tempo a disposizione, le privatizzazioni si sarebbero potute fare anche meglio». Il governo sbaglia a intervenire anche sulla questione Autostrade? «Distinguerei tra il rispetto delle norme sulle concessioni e la difesa dell´italianità. Le preoccupazioni del primo tipo, se hanno un fondamento fattuale, mi sembrano legittime. Quelle del secondo tipo non lo sono, e non sono compatibili con una politica rivolta agli interessi del cittadino-consumatore italiano. Più emergono segnali di prossimità tra forze politiche e forze, o debolezze, dell´economia, più si scopre che spesso l´argomento italianità è usato come paravento». Non crede che il potere politico avrebbe dovuto intervenire almeno quando il capitalismo italiano ha usato l´indebitamento come strumento di controllo dei grandi gruppi? Non le sembra che quella sia stata una distorsione del sistema e del mercato che andava corretta? «Quello dipende più da regole e prassi di «corporate governance» che non dal governo. Ed è più facile che sia il mercato a sanzionare, magari in ritardo, eventuali comportamenti di questo tipo. Mi è arduo immaginare un ruolo dello Stato in questo settore, se non appunto nello stabilire regole per il buon funzionamento dei mercati. E´ questa, di solito, la migliore disciplina sul management delle imprese e delle banche». L´Italia ha perso quasi tutte le proprie imprese in settori strategici. Non sarebbe compito della politica costringere il capitalismo italiano a fare più impresa e meno speculazione finanziaria? «Sì. E per arrivarci occorre evitare che siano possibili posizioni di rendita di rendita, cioè di sovrapprofitto, spesso create da regolamentazioni inadeguate, per esempio che ostacolano l´entrata di concorrenti, o da politiche dei prezzi amministrati e delle tariffe troppo generose». Appunto. Sempre parlando di coincidenze, le sembra un caso che le uniche grandi imprese italiane sopravvissute siano, con poche e lodevoli eccezioni, quelle legate ad un sistema di tariffe determinate in larga misura dal potere politico? «No, questo non è un caso. Ma proprio per questo i pubblici poteri dovrebbero mirare soprattutto ad accrescere le condizioni di concorrenza anche in questi settori: dai trasporti, all´energia, alle telecomunicazioni, alle banche». Ma è ancora riformabile, come vorrebbe il ministro Bersani, un capitalismo italiano la cui redditività dipende in così larga misura dal potere politico? «Più che di riformare il capitalismo «italiano», dovremmo semmai preoccuparci di rendere l´Italia un paese nel quale l´impiego delle risorse economiche sia produttivo, indipendentemente dalla nazionalità di chi le detiene. Questo si ottiene con riforme dello stato sociale e con politiche per mercati concorrenziali, in modo che le risorse umane e finanziarie si indirizzino ad impieghi che creano ricchezza e lavoro produttivo. E´ molto meglio, un buon capitalismo senza passaporto, che un cattivo capitalismo italiano con passaporto politico». Andrea Bonanni