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 2006  settembre 15 Venerdì calendario

Fitzgerald trionfi e catastrofi. La Repubblica 15 settembre 2006. Quando nel 1936 Francis Scott Fitzgerald pubblicò L´incrinatura (The Crack-Up), i suoi amici, i suoi amici-nemici, e i suoi nemici si indignarono profondissimamente

Fitzgerald trionfi e catastrofi. La Repubblica 15 settembre 2006. Quando nel 1936 Francis Scott Fitzgerald pubblicò L´incrinatura (The Crack-Up), i suoi amici, i suoi amici-nemici, e i suoi nemici si indignarono profondissimamente. Sopratutto, si indignò il più abbietto tra loro: Ernest Hemingway, che non era ancora precipitato in un abisso molto più atroce. Quasi tutti scrissero la stessa cosa. Non era possibile parlare di sé come, a quarant´anni, aveva fatto Fitzgerald: violare fino a quel punto il comune sentimento della decenza, rivelando al pubblico i disastri e i dolori della propria vita. Ma la letteratura non ha molto a che fare con la decenza e il decoro. Né Poe né Baudelaire né Verlaine rispettarono le leggi della decenza. Conobbero il fuoco e il fango dell´inferno: ma lo trasformarono in oro - dice l´Epilogo delle Fleurs du mal. Senza dubbi, incertezze o timori, compirono sino alla fine il proprio dovere «come perfetti alchimisti e anime sante». L´intera vita di Fitzgerald era stata un´incrinatura. Fin dall´infanzia, aveva incontrato una serie continua di fallimenti: mancanze, perdite, delusioni amorose, rinunce, abbandoni, insuccessi, umiliazioni, ferite sanguinosissime; o almeno presentimenti di perdite e di ferite. Sebbene a noi questi fallimenti talvolta sembrino minimi, per lui erano egualmente irrimediabili e senza speranza. Era stato cacciato via, lasciato ai margini, escluso «dal grande, risplendente flusso della vita». Da bambino, aveva sognato di non essere figlio di suo padre, ma un orfano di sangue reale: da ragazzo era stato detestato dai compagni, divenendo una specie di capro espiatorio: all´università, non era mai riuscito a conquistare un ruolo di primo piano nei club studenteschi: non era partito per la guerra, morendo come un eroe; e persino quando aveva sposato Zelda, diventando uno scrittore di grande successo, vide nel trionfo l´ombra delle future catastrofi. Per tutta la vita, immaginò sempre di essere soltanto un piccolo, grigio personaggio dell´ducation sentimentale di Flaubert, il libro più amato da Kafka. Tutto era perduto. Fitzgerald era sempre colpevole delle cose che, senza colpa, aveva mancato, e delle luci che si spostavano da un luogo all´altro del mondo. «Non puoi avere niente, non puoi avere assolutamente niente» diceva Anthony Patch in I belli e dannati. «E´ come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e indora qualche oggetto insignificante, e noi poveri idioti cerchiamo di afferrarlo - ma quando lo afferriamo, il raggio di sole si sposta sopra qualcos´altro: e tu hai la parte irrilevante, ma il luccichio che te l´ha fatta desiderare, se ne è andato...» Niente è più doloroso di questo raggio che si sposta, e delle ferite che ci procuriamo inseguendolo. Chi scrive poesie e racconti cerca le luci che si spostano, gli sfavillii, i riflessi: mentre ascolta con attenzione sempre maggiore un suono sullo sfondo, la grande o minima musica tragica delle cose perdute. Se la coltiviamo intensamente, la letteratura ci dà questo privilegio: «Le cose perdute diventano sempre più dolci». Via via che smarriamo, manchiamo, rinunciamo, siamo sconfitti, troviamo intorno a noi, come un regalo o un tesoro che appartiene soltanto a noi, una dolcezza sempre più profonda che invade le nostre anime. Mentre ascoltava questa musica malinconica, Fitzgerald inseguiva una cosa a cui avrebbe dovuto rinunciare: il successo. A quattordici anni, teneva un diario (Il libro dei pensieri), dove riferiva con minuzia i suoi alti e bassi nella popolarità scolastica: a diciannove insegnava alla sorella minore le regole per venire ammirata dai ragazzi. Non amava (credeva di non amare) i genitori, perché non erano ricchi e brillanti. Amava Zelda, la futura moglie, perché era la ragazza più corteggiata dell´Alabama. Invidiava i ricchi di New York. Confidava a Edmund Wilson (suo amico dai tempi degli studi) il desiderio puerile di diventare «uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi». Così, l´arte di piacere si trasformò presto, per lui, in una terribile ossessione. «Qualunque cosa pur di piacere» scrisse con amara ironia a Zelda nel 1930, «per essere rassicurato non che io ero un uomo con un po´ di genio, ma che ero un grande uomo di mondo». Non era orgoglioso ma vanitoso: non aveva fiducia né rispetto per sé stesso. Fitzgerald sapeva che tutti questi desideri non avevano senso per lui: ciò che gli importava era soltanto il dolore e la musica delle cose perdute; ma non poteva fare a meno di sognare un futuro di trionfi fantastici e irraggiungibili. Come Balzac, era un mitomane incapace di guarire. Voleva possedere un dominio assoluto sulle cose vicine e lontane. Tentava e falliva, falliva e tentava. Solo una cosa era certa: la sconfitta, l´incrinatura, la morte mascherata dietro le luci. Zelda Sayre, nata il 24 luglio 1900 a Montgomery (Alabama), quattro anni dopo Fitzgerald, sembrava l´opposto del marito: la figura specchiata e rovesciata. Di lei, giovanissima o adulta o malata, ci restano moltissimi ritratti verbali, perché quasi tutti cercavano di coglierne il segreto. In primo luogo, Zelda era un colore: una macchia sonora e vibrante nel mondo. Aveva i capelli luminosi come quelli di un bambino, o biondo cupo o color miele o oro scuro: il viso roseo o abbronzato, sempre freschissimo, era un´emozionante chiazza di bellezza nella natura. Aveva gli occhi di un falco: pensierosi ma non tristi, severi, quasi maschili. Di giorno, ardevano senza fiamma: la sera, erano agitati, neri e impenetrabili, ma sempre furiosi di impazienza verso la tediosa realtà alla quale lei non apparteneva. Qualcuno la trovava simile a una giovane indiana, o a una principessa barbarica: mentre lei immaginava di discendere da una razza di streghe. Se Fitzgerald era una sola incrinatura, Zelda Sayre non rivelava, in apparenza, nessuna crepa. Da bambina non si stancava mai: correva senza cappello e cappotto persino nel quartiere negro di Montgomery. Le piaceva saltare dall´alto: tuffarsi nelle piscine, arrampicarsi sugli alberi e ridiscendere con un balzo sul terreno. Quando diventò ragazza, ballava tutte le notti, sempre innamorata di qualcuno. La scuola la annoiava. Fumava continuamente: beveva gin o acquavite: raccontava storie scabrose; e diceva di aver baciato «migliaia di uomini» e che ne avrebbe baciati altre migliaia. Qualsiasi cosa facesse, affascinava: sia quando passeggiava arditamente per le strade di Montgomery, sia quando faceva oscillare una mazza sul campo di golf. Non aveva paura di niente: cose, persone, avventure o idee. Il suo coraggio inflessibile era fatto, in parti eguali, di puerilità, egoismo, fredda intelligenza, violenza, smoderatezza. Osservava volentieri soltanto sé stessa. Quando ascoltava gli altri, ad un tratto, inesplicabilmente, le passava sul viso uno strano sorrisetto di disprezzo e indifferenza. Era il suo segreto. Non doveva nulla a nessuno: la sua parte era quella di ricevere regali, regali, regali dal banco inesauribile della vita. Il mondo era un´immagine della sua bellezza, e lei possedeva il mondo, grazie alla bellezza. Pensava che il compito delle donne non fosse di assicurare la quiete, come le avevano insegnato in famiglia, ma quello di offendere, disturbare, provocare disastri. Così Zelda suscitava sorpresa, ammirazione e terrore tra i suoi corteggiatori: in primo luogo in Fitzgerald, per il quale rappresentò sempre il più divertente e tremendo tra gli spettacoli. Era la regina delle farfalle. Sembrava conoscere soltanto le superfici della vita bevendo gioiosamente «la spuma in cima alla bottiglia». Abitava nell´immaginazione, recitava la propria parte come l´attrice più consumata; e poi, all´improvviso, stava di là, cogliendo le sensazioni imponderabili tra il cielo e la terra. Quando conversava, prima esprimeva un´idea con aria rapita, voce di contralto, e un profumato accento del Sud: poi teneva l´idea a distanza, le sorrideva; infine giocava a nascondino con lei, variandola e capovolgendola. Come raccontò Edmund Wilson, usava espressioni rare, immagini inattese, paragoni sorprendenti, cambiando tema di continuo, come in un romanzo di Sterne. Sebbene non fosse colta, aveva un buonissimo gusto letterario. Non seppe mai scrivere romanzi e racconti: ma le sue lettere, anche quelle uscite dalle cliniche psichiatriche, hanno sempre un tocco di tenerezza, fioritura, capziosità, stravaganza, naturalezza e artificio che le rende indimenticabili. Qualcuno si meravigliava della sua conversazione spezzata e sconnessa, dei balzi improvvisi d´immagini, dei sorrisetti, e del vuoto che sembrava abitarla. John Dos Passos fu il primo, forse, ad avvertire in lei «un tocco strano». Quando la conobbe, nel settembre 1922, urtò contro qualcosa di inesplicabile. «Sebbene fosse veramente incantevole, ero incappato in qualcosa che mi spaventava e ripugnava, perfino fisicamente... L´abisso che si aprì tra Zelda e me era qualcosa che non si poteva spiegare». Rebecca West sosteneva che Zelda, questa donna bellissima, era in realtà brutta, perché il suo volto aveva una singolare disarmonia, come «i ritratti di folli di Géricault: il suo profilo sembrava costruito su due piani diversi», e ricordava le figure che Picasso disegnava in quegli anni. Sara Murphy sosteneva che Zelda poteva essere «spettrale»: «A volte sembrava che ti stesse aspettando in agguato, con i suoi occhi indiani». Zelda diceva di essere posseduta dai dèmoni come una strega. In una lettera del 1930 alla cognata, Fitzgerald ricordò crudelmente che il padre di Zelda aveva avuto una grave depressione, che tre sorelle erano nevrotiche, la nonna si era uccisa, e alcuni zii erano squilibrati. Anche il fratello di Zelda, Anthony, si suicidò nel 1933. Ma fu proprio Fitzgerald, il quale comprese la moglie come nessun altro, a dire la parola giusta. Il 7 dicembre 1940, pochi giorni prima di morire, scrisse alla figlia: «I malati di mente sono sempre semplici ospiti sulla terra: eterni stranieri, che portano con sé decaloghi spezzati che non sanno leggere». Pietro Citati