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 2006  settembre 10 Domenica calendario

Vita da arbitro. La Repubblica 10 settembre 2006. Viareggio. Un armadio pieno di maglie, palloni, souvenir di una vita da arbitro

Vita da arbitro. La Repubblica 10 settembre 2006. Viareggio. Un armadio pieno di maglie, palloni, souvenir di una vita da arbitro. Il migliore del mondo, dicevano ed era vero. Anche il più famoso. Tutto il calcio di Pierluigi Collina è stipato, un po´ alla rinfusa, in una stanza al secondo piano della sua villetta. Non ha ancora voglia di fare il museo di se stesso. Gli manca il taxi, quello sì, quello che lo portava dall´albergo allo stadio: veder scorrere dietro al finestrino la gente con le bandiere che s´avvia, le farfalle nello stomaco, il profilo del gigante di cemento che ti esplode davanti agli occhi all´improvviso. La tensione del prima. E gli manca un po´ anche la tremarella del dopo: quando, finita la partita, l´adrenalina crollava e gli lasciava addosso i brividi. Ha smesso da un anno, dopo 28 di carriera, una finale mondiale, 240 partite in 15 stagioni di serie A e oltre cento internazionali. Dissero, la scorsa estate, che uno dei suoi sponsor era lo stesso del Milan e allora no, non si poteva proprio. Poi nel calcio italiano è successo quel che è successo. Anche e soprattutto ai suoi accusatori e nemici, anime belle, paladini dell´etica. Ma è storia vecchia. Ieri è ripartito, con gli anticipi, il campionato. Quello dopo la tempesta, che era nata uragano ed è finita temporale. piovuto tanto anche sugli arbitri, mai così soli, mai così fragili e discussi. Un anno difficile, quello che verrà, fatto di una partita difficile dopo l´altra. Ancor più di prima, se possibile. «Ci vuole coraggio, tanto», dice Collina, 46enne bolognese, che iniziò ad arbitrare nel ”77: simpatizzava per la Lazio e per la Fortitudo basket, giocava da libero, un paio di volte fu anche espulso poi un compagno di liceo, Fausto, lo convinse a fare il corso. Presero lui e non l´amico, perché aveva le lenti a contatto. Laurea in Economia e commercio con 110 e lode, responsabile marketing di Resto del Carlino e Nazione, prima di lasciare tutto e trasferirsi in Versilia con la moglie Gianna, 15 anni fa, quando l´alopecia l´aveva già colpito da 5. Due figlie, Francesca Romana e Carolina, 15 e 11 anni, una biografia tradotta in 13 lingue, ideali di destra, il titolo di commendatore della Repubblica firmato da Ciampi in una cornice accanto alla Laurea honoris causa dell´Università inglese di Hull. Chissà come saranno queste domeniche dentro la testa di un arbitro, chissà come si sopravvive al centro della bufera. Chissà com´è una di queste giornate bestiali prima, durante e dopo quei maledetti magnifici novanta minuti. Il week end dell´uomo in nero ce lo racconta proprio lui, Pierluigi Collina. Il venerdì arriva la designazione. Chi organizza il viaggio? « l´arbitro che sceglie con quale mezzo spostarsi e dove dormire. Per consuetudine si alloggia nella stessa città della partita e si cerca di arrivare almeno ad ora di cena la sera prima. Alle prenotazioni pensa l´agenzia di viaggi del centro tecnico di Coverciano. Io preferivo spostarmi in auto o in aereo, salvo a Roma dov´era più comodo andare da Firenze con l´Eurostar». Cosa metteva nel borsone? «Sono stato uno di quelli che ha insistito con lo sponsor tecnico perché ci facesse delle borse più grandi. Io mi portavo un sacco di cose. Un paio di scarpe da jogging, due da calcio, sei divise (due per ciascuno dei tre colori), il necessario per il riscaldamento in campo, due orologi, le bustine di integratori che preparavo da me nello spogliatoio, vari fischietti anche se per vent´anni ho usato sempre lo stesso». Portafortuna? «No, non sono superstizioso. Però ho sempre usato la stessa monetina per il sorteggio iniziale: un mezzo dollaro, testa o aquila». Mai dimenticato qualcosa? «Niente di importante. Mi preparavo io la borsa, con scrupolo. Però una volta mi sono dimenticato i cartellini nello spogliatoio durante l´intervallo di un Brescia-Milan e andò il quarto uomo a recuperarli». Che tipo di hotel preferiva? «L´albergo deve assolutamente essere diverso da quello dove alloggiano le squadre. Io sceglievo sempre gli stessi, non molto grandi e possibilmente con un arredamento minimalista. Niente velluti o broccati, perché sono allergico alla polvere. Cercavo di evitare i grandi alberghi, magari pieni di turisti, per avere più riservatezza. Un autografo o una foto non mi ha mai disturbato, ma una volta prima di Germania-Inghilterra a Charleroi in Belgio, Europei del 2000, capitai in un albergone pieno di tifosi inglesi. Quelli della camera accanto facevano un baccano d´inferno e ad una certa ora andai a bussare in modo piuttosto energico: "Domani - dissi a quei ragazzi - dovrei fare qualcosa di molto importante che riguarda anche voi". Dopo non volò più una mosca». A cena con chi la sera della vigilia? «Con gli assistenti per chiacchierare soprattutto di calcio. Preferibilmente nel ristorante dell´albergo, senza andare in giro per la città con la guida Michelin. Cene molto rapide: non mi è mai piaciuto restare a tavola per più di un´ora. Alle 22-22.30 ero in camera a leggere un libro, sono appassionato di biografie storiche, guardare un po´ di tv o un dvd sul computer». Sua moglie l´ha mai accompagnata? «Mai. Ha visto solo una partita diretta da me venendo per i fatti suoi con amici. Non sei in vacanza, non è una domenica libera. Anche un famigliare potrebbe distoglierti o condizionare ritmi e abitudini». Quanto sonno? «Almeno 7-8 ore e, nel caso di una gara notturna, anche la pennichella pomeridiana di un´oretta. Mai avuto problemi di insonnia o stati d´ansia, nemmeno prima della finale dei Mondiali 2002». La mattina della partita. «Dopo la colazione a base di frutta, crostata e caffè tornavo in camera a leggere i giornali per aggiornarmi anche sulle ultime novità della partita. Poi alle 11.30 il pranzo: pasta all´olio e al massimo una fetta di crostata. A seguire la riunione tecnica con gli assistenti e per 40-45 minuti si parla della partita: quali problemi presenta, come affrontare determinate situazioni possibili, caratteristiche tecniche dei giocatori e tattiche delle squadre». Telefono spento? «No, anche perché chi mi conosceva sapeva che la mattina era il caso di lasciarmi tranquillo. E comunque rispondere non è obbligatorio». Il trasferimento allo stadio, dunque. «In taxi e con una scorta, chiesta alla Questura o ai vigili urbani, solo in alcune città non per motivi di sicurezza ma di traffico, per evitare di restare imbottigliati e fare tardi. Quel tragitto è il momento di massima adrenalina, quella sensazione che forse mi manca di più. Sempre arrivato almeno un´ora e mezza prima, anche due di solito. Mi serviva per entrare nel clima, svolgere il mio rituale con calma e metodo, trovare la concentrazione. Alcuni allenatori invece preferiscono arrivare all´ultimo momento, per evitare che i giocatori nella lunga attesa accumulino troppa tensione o addirittura la perdano del tutto». Chi entrava nel suo spogliatoio? «Quelli autorizzati dal regolamento. I dirigenti accompagnatori delle squadre, e i presidenti o un loro delegato per un saluto, ma al massimo fino a mezz´ora prima». L´ultima ora, la tensione sale. «L´incontro coi giocatori, nei corridoi. Gli scambi di saluti, con quelli di vecchia conoscenza un po´ più cordiali. Riscaldamento in campo per 20-25 minuti e poi l´ultimo quarto d´ora in rigoroso silenzio nello spogliatoio. Niente scherzi, niente chiacchiere, gesti automatici». Finalmente in campo. «Davo appuntamento nel tunnel ad una certa ora, a seconda dello stadio: a Napoli per uscire devi percorrere 150 metri, a Genova tre. Mai fischiato per chiamare fuori le squadre: mi pareva offensivo. Se qualcuno tardava andavo a bussare o mandavo un assistente. Poi dentro. L´emozione dello stadio, la folla, le coreografie: un momento molto forte. Un derby a San Siro o all´Olimpico è uno spettacolo di gente, ma il tempo per guardare era poco: sentivo l´atmosfera». Dopo il primo tempo, cosa succede nell´intervallo se la partita sta andando male? «In 8-9 minuti si parla con gli assistenti, per capire cosa non sta funzionando, si cerca di trovare il modo per ripartire al meglio. Se uno di loro aveva commesso un errore cercavo di tranquillizzarlo, minimizzando. Qualche volta dovevo usare un tono più deciso per scuoterlo, se vedevo che non reagiva e stava a rimuginarci su. la tua squadra e il tuo risultato dipende anche dai tuoi assistenti. Non ha senso fare processi o scenate». E se l´erroraccio l´aveva fatto lei? «Cercavo di trovare dentro di me la calma e capire cosa era successo, per ripartire come se niente fosse. Non ho mai guardato una moviola su un monitor di servizio durante l´intervallo. Sarebbe stata una dimostrazione di insicurezza molto imbarazzante. Eppoi non sarebbe servito a nulla». Ha mai fatto irruzione qualcuno per protestare? «Sì, sono cose che capitano. Se l´atteggiamento era corretto, davo spiegazioni. Altrimenti li invitavo ad uscire e ovviamente avrebbero poi subìto sanzioni disciplinari». Finisce la partita: cosa resta di un arbitro? «Io, una volta tornato nello spogliatoio, cominciavo a tremare. Specie di inverno. Un po´ per il calo di tensione e un po´ per il freddo, che ho sempre patito molto. Non ho mai capito da cosa dipendesse di più. Il momento del down, del crollo della tensione, comporta buffe reazioni. A me succedeva così. Poi la doccia, il referto, l´analisi della partita insieme all´osservatore della Can. Ho sempre avuto recuperi molto flemmatici». Mai scappato dalle uscite secondarie? «Qualcuno fuori ad esprimere, per così dire, il proprio dissenso capitava. Assediato o fuggito mai, se non per colpe non mie: nell´ultimo anno diressi i due spareggi retrocessione e sia a Bologna che a Vicenza i tifosi assediarono gli spogliatoi imbestialiti con la squadra di casa. A Vicenza ad un certo punto convinsi il Questore a farmi uscire e, con sua enorme sorpresa, passai tra quelle 3-400 persone imbufalite raccogliendo pacche sulle spalle e in bocca al lupo. I giocatori del Vicenza penso che uscirono solo alle due di notte». La prima telefonata durante il ritorno? «A mia moglie, per farla partecipe delle mie sensazioni anche se di calcio non capisce niente. Poi ai designatori per scambiare impressioni e con qualche amico arbitro». Si arriva a casa e comincia il supplizio tv. «Volente o nolente, è una parte importante per avere un primo riscontro. Qualche volta mi dispiaceva sentire critiche campate in aria da qualche commentatore. La partita per un arbitro è frutto di impegno, sacrificio e lavoro, poi può sbagliare: mi dava fastidio sentirci definire come incapaci. Mi ha sempre irritato la frase: abbiamo lavorato una settimana e l´arbitro ha rovinato tutto. Come se noi non avessimo fatto nulla per tutta la settimana». La dannata moviola. «In un Chelsea-Barcellona di Champions League la tv rivelò con un´inquadratura dietro la porta che il gol decisivo degli inglesi era viziato da una trattenuta che, dalla mia posizione in campo, non avrei mai potuto vedere. Tant´è che i giocatori non protestarono e nemmeno i tifosi del Barcellona, all´uscita dal campo. Nessuno se n´era accorto. Che senso ha, allora, far vedere qualcosa da un punto di vista che l´arbitro non poteva avere?». Come sono le sue domeniche senza calcio adesso? «Dopo 28 anni i primi tempi non sono stati semplici. All´improvviso non fare più quello che hai fatto per una vita, ti cambia parecchio. Adesso, con Sky, la domenica è tornata molto simile a prima: trasferta, stadio, partita. Fortunatamente senza moviole alla fine». Come fa un arbitro a salvarsi l´anima in un mondo così complesso? «Con la coscienza di aver fatto il massimo per prepararsi all´impegno, con la concentrazione che ti rende impermeabile a tutto e soprattutto con grande coraggio. Ce ne vuole tanto per prendere decisioni difficili in un contesto complicato, quando sarebbe molto più facile non decidere. Ma devi farlo, sei lì per quello e devi avere tanto coraggio. La più grossa banalità che si sia mai detta è che l´arbitro bravo è quello che non si nota: no, quello che non si vede è chi non decide. Decidere costa, anche nella vita, e in campo non si può evitarlo. Chi non ha il coraggio di decidere non potrà mai essere un buon arbitro». Emilio Marrese