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 2006  settembre 14 Giovedì calendario

Prodi, banche amiche ma con le industrie aumenta la tensione. La Stampa 14 Settembre 2006. Milano. Da una parte l’arcipelago dei sogni: quello bancario dove tutte le isole maggiori sono viste dal governo come alleate

Prodi, banche amiche ma con le industrie aumenta la tensione. La Stampa 14 Settembre 2006. Milano. Da una parte l’arcipelago dei sogni: quello bancario dove tutte le isole maggiori sono viste dal governo come alleate. Sul confine opposto porzioni tutt’altro che piccole o remote del continente imprenditoriale dove «sunt leones», pezzi di sistema considerati ostili e accusati addirittura di alto tradimento industrial-nazionale. Dopo quattro mesi di governo di Romano Prodi la nuova mappa del potere economico-finanziario, tratteggiata in modo forse sommario ma non inesatto, è questa. Basta del resto mettere in fila gli eventi del periodo per capire come la geografia del potere economico attorno al nuovo esecutivo - con evidenti differenze tra Prodi e i ds a tutto vantaggio del primo - stia cambiando in modo radicale, rapido e per certi versi inaspettato. Le banche, intanto. Il fulmineo matrimonio estivo tra Banca Intesa-Sanpaolo, che crea il nuovo campione del credito nazionale - e in prospettiva internazionale - sotto il segno di Enrico Salza e di Giovanni Bazoli e soprattutto con la benedizione totale e incondizionata del presidente del Consiglio, dà il segno chiaro di un potere creditizio che si salda anche, seppure non esclusivamente, attorno al nuovo premier. Ma più in generale una buona - in termini qualitativi e quantitativi - fetta del mondo bancario è considerata a ragione vicina a Prodi: oltre a Bazoli, che del Professore è stato come noto uno dei veri «kingmaker» per la guida del centrosinistra già un decennio fa, c’è ad esempio la fortissima sintonia con l’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo, ossia l’altro grande attore della scena bancaria italiana, proiettato con l’operazione Hvb anche in una dimensione europea. Nell’orbita Ds, giova ricordarlo, vengono lasciati pezzi minori del sistema: il Montepaschi di Siena e, in parte, Capitalia con l’aggravante che la combinazione tra le due sembra difficilmente praticabile. Ma tanto i rapporti di Prodi con il mondo creditizio sono buoni, tanto quelli con una parte dell’industria hanno già superato il limite di rottura. E questo nonostante le relazioni tra il premier e Confindustria siano improntate al reciproco rispetto e alla collaborazione. Il primo strappo, e i tempi non sono casuali, proprio a cavallo del cambio di governo. Quando a fine aprile i Benetton annunciarono - approfittando della vacanza di potere politico, è l’accusa che risuonò allora dal nuovo inquilino di Palazzo Chigi - l’accordo di Autostrade con Abertis. Un accordo che per Prodi consegnava di fatto il controllo della società concessionaria nelle mani degli spagnoli. Adesso la dura querelle con Marco Tronchetti Provera. La Telecom - controllata dalla Olimpia che vede come soci la Pirelli assieme ai soliti Benetton, la loro sarà solo sfortuna o sospetta pervicacia? - viene in sostanza accusata dal premier non tanto di non aver informato il governo della decisione di scorporare i telefonini, quanto di aver chiesto, e ottenuto, un canale diretto di contatto per poi dare informazioni del tutto fuorvianti e di progettare adesso una vendita della stessa Tim. Così, mentre sull’asse Milano-Nanchino volano gli stracci e le ricostruzioni in contraddittorio tra Prodi e Tronchetti, viene da chiedersi non solo quale sia la versione giusta, ma soprattutto quali siano le ragioni dietro questo nuovo schieramento di amici e nemici in campo economico. Certo, come ha scritto Oscar Giannino, commentatore prolifico e non insensibile alle ragioni del Polo, riferendosi alle mosse di Prodi sullo scacchiere finanziario: «Scusate se è poco, a soli cento giorni dal suo insediamento. Berlusconi se l’è sognato in cinque anni». E in effetti, a Palazzo Chigi e dintorni l’arrivo di Prodi ha segnato un cambio di registro deciso. Nelle questioni economiche si identifica un asse, o più benevolmente una squadra, ben precisa che parte dallo stesso premier e passa dal suo tesoriere Angelo Rovati, fino al sottosegretario all’Economia Massimo Tononi e al banchiere d’affari Claudio Costamagna, questi ultimi due provenienti entrambi dalla blasonata banca d’affari Goldman Sachs, e con lo stesso Costamagna vicino alla guida della Mittel, la finanziaria bresciana che è una delle creature predilette di Bazoli. Si potrebbe discettare se siamo alla solita battuta-accusa di Guido Rossi ai tempi del governo D’Alema per cui Palazzo Chigi era la sola merchant bank in cui non si parlasse inglese, con l’attenuante - o aggravante - che qui invece adesso l’inglese è «fluently spoken». Ma l’unica cosa certa è che Prodi - da professore di Economia industriale già consulente di molte società italiane, da motore del centro di ricerche Nomisma, da presidente dell’Iri, da guida della Commissione europea e adesso da premier - nel mondo della finanza e dell’industria trova uno dei suoi habitat naturali anche se non sempre - lo dimostrano le cronache di questi giorni - si muove con scioltezza. E tanto per passare dal serio al faceto, appare significativo anche il fatto che proprio le nozze di Rovati con la stilista Chiara Boni, la settimana scorsa a Roma, si siano trasformate in un parterre - di cui l’immancabile sito Dagospia ha dato doverosa e ridondante documentazione fotografica - di finanza&potere allo stato puro: dagli stessi Bazoli e Profumo fino al direttore del confindustriale Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli, passando per nomi come quello Costamagna e arrivando a Franco Bernabé, ex presidente dell’Eni che oggi fa il banchiere d’affari con Rothschild. Ma è anche vero che di fronte a un centrosinistra così attivo c’è l’immagine allo specchio di un centrodestra guidato dal Grande Imprenditore, che sul mondo della finanza ha inciso nella sua legislatura poco o nulla. Più per incapacità, si suppone, che per vocazione. Battaglie come quella di Giulio Tremonti contro le Fondazioni bancarie sono finite con una sonora sconfitta per l’esecutivo, le velleità di aggregazioni bancarie si sono infrante contro le tragicomiche visite di Gianpiero Fiorani munito di cactus nella villa sarda del Cavaliere e la successiva valanga giudiziaria. Poi il silenzio assoluto di fronte al caso Autostrade seguito finora dal medesimo silenzio - o da voci contraddittorie nello stesso partito, come accade ai colonnelli di An - nella vicenda Telecom. Mancanza di uomini e teste, di cultura economico-finanziaria, o abitudine appunto di lavorare all’ombra di un leader che in sè sembrava assommare - oltre al resto - anche tutte le competenze necessarie a dirigere il traffico della finanza? Un po’ di tutto questo, probabilmente. Ma, tornando a Prodi, perché le banche sì e le imprese - alcune imprese, per la precisione - no? A voler tagliare per le spicce si potrebbe argomentare che proprio il mondo bancario, che vede ancora una forza preponderante delle Fondazioni nel capitale degli istituti, mantiene intatta una cinghia di trasmissione con la politica i cui frutti sono evidentemente visibili. Interpretazione, questa, che come ovvio non si condivide a Palazzo Chigi. Prodi stesso ha spiegato ai suoi che considera la mossa di Bazoli e Salza lungimirante perché altrimenti sarebbero finiti uno in mano ai francesi del Credit Agricole e l’altro agli spagnoli del Santander. E in quanto alla cinghia di trasmissione tra politica e credito, si fa notare, difficile che un’operazione che fosse dettata da ragioni politiche sia così apprezzata dal mercato. E quello che accade con gli industriali? E’ significativo che i due scontri scoppiati - finora - tra governo e imprenditori, riguardino due società privatizzate, due infrastrutture del paese come le strade e i telefoni. Colpa dunque di un’era di privatizzazioni - quella di un decennio e passa fa, sotto il segno del centrosinistra - dettate da esigenze di bilancio più che da vere rivoluzioni di mercato? Probabile. Ma è vero anche che proprio quella incriminata domenica di settembre, mentre il ministro Tommaso Padoa-Schioppa metteva in guardia dall’anomalia italiana di una proprietà troppo identificata con il management, e dal conseguente rischio che si preferisca salvare il controllo invece delle aziende, anche Prodi ha presentato un suo certo conto all’industria, spiegando alle imprese, anzi ai «ragazzi», come ha chiamato gli industriali, che è il momento di far ripartire gli investimenti, «è ora di darsi una mossa». Non verso l’estero, par di capire. Francesco Manacorda