Corriere della Sera 12/09/2006, pag.25 Marco Imarisio, 12 settembre 2006
Nei capannoni dei nuovi schiavi dove si fanno i turni per dormire e spariscono tutti i morti. Corriere della Sera 12 settembre 2006
Nei capannoni dei nuovi schiavi dove si fanno i turni per dormire e spariscono tutti i morti. Corriere della Sera 12 settembre 2006. Firenze. I capannoni cinesi dell’Osmannoro sono lo sporco nascosto sotto al tappeto. Nelle stradine della zona industriale dominata dalla scatola azzurro-gialla dell’Ikea, le ditte di abbigliamento e magazzini all’ingrosso si alternano a cancellate anonime che nascondono i laboratori abusivi dove centinaia di famiglie appena arrivate da Wenzhou, nel Sud della provincia di Zhejiang, lavorano, mangiano, dormono accanto ad un telaio in un ciclo di produzione che non prevede soste. Sono pelletterie dove per risparmiare vengono usati mastici e solventi grezzi, dannosi non solo per l’ambiente. Dentro, l’odore di tanti sudori mischiati forma quasi una cappa. Le assi di compensato delimitano le «case» di ogni famiglia, due metri quadrati al massimo, dove la maggior parte dello spazio è presa dal telaio. Le ragazze che vi lavorano tengono i neonati sulle spalle, non c’è spazio neppure per la culla. Altri bimbi infilano l’ago nel cuoio e lo passano al padre che seduto su un materasso macchiato e logoro mangia da una ciotola di riso, in attesa di dare un cambio volante alla moglie. I turni sono di sedici ore, da mezzogiorno alle quattro del mattino. Si dorme accanto al telaio. C’è qualche materasso, la maggioranza dei giacigli è composta da pezze di stoffa e cuoio accatastate, gli scarti del lavoro. Tre ventilatori che dovrebbero far respirare centinaia di persone penzolano dal soffitto. Aria stagnante, mosche dappertutto. L’Osmannoro, il grado zero della filiera cinese. E’ un triangolo di territorio dai confini incerti, incastrato nella periferia Ovest di Firenze tra i comuni di Peretola, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio. Una lunga distesa di capannoni e industrie, una propaggine del distretto tessile di Prato. I «confezionisti» cinesi si sono spostati qui. Sono l’ultima ruota del carro, quelli appena arrivati che per tre anni faticheranno per riscattare i 25.000 euro del viaggio destinati alle tasche dei trafficanti che laggiù, a casa loro, tengono sotto tiro i familiari. Dopo, potranno iniziare la loro scalata, come i connazionali che adesso li tengono in schiavitù, pronti ad accogliere altri immigrati di prima generazione da sfruttare. Nella piana tra Firenze e Prato ci sono più di 5.300 imprese «regolari» gestite da cinesi, i capannoni abusivi sono impossibili da quantificare. Ottocento, mille, azzardano i finanzieri di Firenze. Il «sorvegliante» del capannone vicino all’Ikea è una donna, l’unica a parlare un accenno di italiano. Nei mesi scorsi ha avuto qualche problema, le erano nati tre figli in cinque mesi. Il suo nome era stato usato da altrettante ragazze «clandestine» del laboratorio che avevano partorito in ospedale. Già. I cinesi sorridono sempre, i cinesi non fanno debiti e non rubano, i cinesi pagano sempre in contanti, sono una comunità silenziosa che non si integra ma non disturba. Addirittura, i cinesi non muoiono mai, le identità dei defunti cambiano soltanto di mano. Ognuno di questi stereotipi contiene una parte di verità. Numero di cinesi morti nel 2005 a Prato: tre. Nuovi arrivi: 5.000. L’anno scorso, mentre l’Italia extracomunitaria faceva code interminabili tra posta e questura per il decreto flussi, le richieste «cinesi» di regolarizzazione a Prato furono appena due. L’immigrazione orientale conosce vie tutte sue, ha grande mobilità, si muove per l’Europa inseguendo lavoro e sanatorie. I capannoni dell’Osmannoro, ultimo domicilio malsano e conosciuto di centinaia di cinesi, dimostrano la vacuità di certe discussioni sull’immigrazione fondate su una legalità sbandierata a parole ma impossibile da applicare. «O governi minimizzando i danni, o lasci fare. Tanto la pentola esplode lo stesso». Il parroco di San Donnino si chiama Giovanni Momigli ed in passato è stato titolare di due definizioni che sono una l’opposto dell’altra: «Il prete dei cinesi» e «il prete razzista». A metà strada tra Firenze e Prato, dieci anni fa San Donnino si trasformò in San Pechino. Nacquero comitati cittadini, ronde notturne, c’era tensione. Con il sindaco di allora, don Momigli diede la linea: «Stesse regole per tutti». Insulti da entrambi gli schieramenti. Quando i vigili misero i sigilli a trenta ditte, i cinesi se ne andarono, ma gli artigiani locali rimasero senza lavoro e furono altre proteste. Morale di questo prete ex sindacalista Cisl che entrò in seminario a quarant’anni: «Si dovrebbe decentrare. Creando tante Chinatown, si genera anche immobilismo. Ma siccome nessuno vuole gestire la diffusione dei cinesi, sono loro ad agire, nascondendo le loro realtà peggiori». L’Osmannoro è il nuovo nascondiglio. Centinaia di famiglie che passano anni vivendo in una zona industriale, dove alle cinque di sera non c’è più una luce per strada. Tutti sanno delle condizioni in cui vivono i più deboli. Ma va bene così, anche se quei capannoni sfidano qualunque diritto dei lavoratori. La pratica della mediazione sociale predicata da don Momigli trova difficile declinazione nella vita quotidiana, dove risulta più semplice il compromesso. Se il comune di Campi limita al 40 per cento l’assegnazione di case popolari ad extracomunitari, non importa quale sia l’ordine di lista, a Prato intervengono sui laboratori palesemente fuori legge sigillando i macchinari, ma soltanto dopo essersi premurati di scegliere capannoni nei quali non vivono troppi bambini. «Il laboratorio ghetto crea le condizioni per una vita da ghetto» dice Andrea Frattani, assessore all’Immigrazione del comune di Prato. In quest’area, un minorenne su cinque è straniero, i figli di extracomunitari che vanno a scuola rappresentano il 22% del totale, ma l’83% abbandona al primo anno delle superiori. «Il ghetto cinese non è soltanto una condizione fisica, ma anche sociale ed economica». Ai cinesi questo ragionamento però non interessa. Dice don Momigli: «In quei capannoni, i minorenni si sentono parte del riscatto della loro famiglia»; la sinologa Antonella Ceccagno sostiene che per i cinesi di Firenze e Prato il lavoro coatto non esiste: «Condividono con i loro sfruttatori l’idea dell’arricchimento forzato, hanno la stessa visione». E Frattani applica categorie economiche all’impossibilità di agire: «I cinesi sono la garanzia di una vecchiaia sicura agli anziani dai quali affittano i capannoni. Ammortizzano socialmente una condizione di crisi che hanno contribuito a creare». Meglio che restino, dunque. Anche alle loro condizioni, anche se tengono i loro inconsapevoli schiavi in posti luridi noti a tutti. L’altro ieri a Prato, oggi ad Osmannoro, domani chissà. Marco Imarisio