Note: [1] Beppe Severgnini, Corriere della Sera 7/9; [2] Anthony Giddens, la Repubblica 31/8; [3] Alberto Mattioli, La Stampa 4/9; [4] Gianni Riotta, Corriere della Sera 8/9; [5] Jean Marie Colombani, La Stampa 4/9; [6] Gianni Riotta, Corriere della Sera , 9 settembre 2006
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 11 SETTEMBRE 2006
Sono passati cinque anni da quando il volo 11 dell’American Airlines si schiantò contro la Torre nord del World Trade Center di New York dando il via alla «più grande carneficina in terra d’America dopo il 1862» (Beppe Severgnini) [1], all’attacco «più distruttivo mai perpetrato sul territorio Usa dall’epoca dell’invasione britannica, nel 1812» (Anthony Giddens). [2] Da allora ci sono state due guerre (Aghanistan, Iraq), svariate operazioni clandestine, l’arresto e la condanna del ventesimo kamikaze (Zacarias Moussaoui). Bin Laden è ancora latitante (Saddam Hussein in galera). Alberto Mattioli: «Se 2.973 morti (forse: le cifre esatte non si sapranno mai) sono solo un addendo nella contabilità del grande macello, è come e dove sono morti ad averli resi un simbolo. stato detto che la globalizzazione è anche questo: tutti gli americani sanno dov’erano quando spararono a Kennedy, tutto il mondo sa dov’era quando spararono alle Torri Gemelle con due proiettili king size. Per questo l’11 settembre ha cambiato le nostre vite». [3]
Secondo la rivista Foreign Policy l’11 settembre è in realtà «il giorno che non ha cambiato granché». Gianni Riotta: «Foreign Policy sbaglia: l’11 settembre ha cambiato spirito e indole del nostro tempo. Non si tratta di Dow Jones, import-export, Palestina. l’approccio al futuro che è mutato, siamo diventati cauti, circospetti, più cinici ed egoisti, meno tolleranti. Il 10 settembre 2001 vivevamo, ingenuamente, l’alba rosea seguita alla Guerra Fredda, un’era che il presidente Bush padre aveva battezzato Nuovo ordine mondiale. Certi che in Russia si affrancasse una democrazia vibrante, in Medio Oriente la trattativa tra Nobel per la Pace e che gli ibridi culturali non temessero rigetti, studiavamo Internet, la genetica, la cultura e il turismo di massa, sistema nervoso di un sogno, l’era dell’Acquario, l’armonia. Non comprendemmo i lampi di tempesta». [4]
Prima dell’11 settembre, che era in realtà il dopo 9 novembre 1989, e cioè il dopo caduta del muro di Berlino, le teorie in voga mettevano l’accento sulla «fine della Storia». Jean Marie Colombani: «Si trattava in realtà della fine della guerra fredda. Ora invece è piuttosto con il ritorno della Storia nella sua dimensione tragica che dobbiamo confrontarci; e per un lungo periodo.
Vale la spesa ricordare i fatti: l’attentato, lo choc planetario, la reazione di solidarietà, la risposta, sotto forma della guerra in Afghanistan per cacciare dal potere i taleban. Tutto ciò s’è svolto in modo abbastanza positivo fino verso la fine del 2001. Poi, disgraziatamente, è cominciato il conto alla rovescia che conduceva alla guerra in Iraq». [5]
In cinque anni, l’affetto commosso che circondava l’America si è trasformato in diffidenza, se non peggio. Severgnini: «La spiegazione di Cheney e Rumsfeld, gli architetti della risposta militare americana, è: il mondo non capisce. Può essere: ma quando uno parla e nessuno capisce vuol dire che, come minimo, s’è spiegato male. Anche gli amici sono perplessi. In Gran Bretagna - riporta il Wall Street Journal, non proprio una testata no-global - ”solo il 12% della popolazione ha fiducia nella leadership americana” e ”il 58% considera gli Usa una potenza imperiale che vuole dominare il mondo a tutti i costi”. Ed è un dato nazionale per l’alleato più fedele degli Stati Uniti. Provate a immaginare lo stesso sondaggio tra i musulmani di Birmingham, o al Cairo. The Economist, che nel 2003 appoggiò la guerra in Iraq, ha ammesso d’essersi sbagliato, e ha lasciato intendere d’essere stato ingannato: ci avevano detto che esistevano armi di distruzione di massa, e non c’erano». [1]
Si dice: l’11 settembre è iniziata una guerra. Richard Haass, l’ambasciatore che ha coordinato la politica estera al Dipartimento di Stato per il presidente Bush: «Inutile parlare di guerra al terrorismo, il nemico è come un virus, non un’armata in campo». [6] Ralf Dahrendorf: «Definire gli attentati terroristici atti di guerra non è corretto, e neppure utile: sarebbe più giusto parlare di imprese criminali. Il fatto è che usando il concetto di ”guerra” – e dando un nome all’avversario, identificato solitamente con Al Qaeda e col suo leader, Osama Bin Laden – il governo Usa ha potuto giustificare, in politica interna, una serie di cambiamenti che prima dell’11 settembre sarebbero apparsi inaccettabili in qualunque paese libero. La maggior parte di questi cambiamenti sono passati per il Patriot Act». [7]
Senza gli attacchi dell’11 settembre, Bush (che nel frattempo è stato rieletto) avrebbe adottato una linea politica meno interventista? Sergio Romano: «La componente neoconservatrice della sua amministrazione poté finalmente imporre la propria agenda. Vi erano coloro che ritenevano necessario, anche nell’interesse di Israele, modificare gli equilibri medio-orientali colpendo dapprima l’Iraq e, successivamente, l’Iran. Vi erano i paladini della presidenza forte, come Dick Cheney e Donald Rumsfeld, convinti che una guerra avrebbe permesso alla Casa Bianca di rafforzare la propria autorità nel Paese e di prevalere sul Congresso. Furono queste le ragioni per cui si parlò subito di una ”guerra al terrorismo”, destinata a protrarsi per alcuni anni, piuttosto che di una reazione agli attentati basata sulla utilizzazione della polizia, dell’intelligence e dei servizi di sorveglianza finanziaria». [8]
Questa doppia strategia (rifare il Medio Oriente, dare al presidente maggiori poteri) produsse una serie di strumenti. Romano: «Il primo fu il Patriot Act, vale a dire la legge che soppresse a favore dell’Esecutivo alcuni elementari diritti civili della democrazia americana. Il secondo fu un esercito ”agile”, composto da un numero limitato di professionisti e riservisti, armato di armi raffinate e capace di azioni fulminee senza la necessità di ricorrere al ”gettito” del reclutamento popolare. Il terzo fu una giustizia militare sommaria ed extraterritoriale (Guantanamo, Abu Ghraib, Bagram) che avrebbe considerevolmente ridotto i poteri d’intervento della magistratura americana. Il quarto fu il ricorso massiccio alla prassi costituzionale dei ”signing statements”, la dichiarazione con cui il presidente, nel firmare una legge adottata dal Congresso, si riserva il diritto di applicarla secondo i propri criteri». [8]
Il Patriot Act e la giustizia sommaria hanno risvegliato gli spiriti umanitari e garantisti della democrazia americana. [8] Dahrendorf: «Al momento del varo del Patriot Act non c’è stata una forte opposizione pubblica contro queste restrizioni delle libertà. In generale, il più delle volte a trovarsi nei guai sono stati i critici, e non i sostenitori di queste misure. In Gran Bretagna, dove il primo ministro Tony Blair si è schierato senza riserve con la politica Usa, il governo ha introdotto disposizioni dello stesso tipo, e ha persino lanciato una nuova teoria. stato infatti Blair a inaugurare la tesi secondo la quale la prima di tutte le libertà sarebbe la sicurezza!». [7] Vittorio Zucconi: «La domanda che Bush ora pone con meno retorica e più chiarezza è semplice e classica, nella sua natura reale: siete disposti a cedere un poco della vostra libertà, a chiudere gli occhi sulla sacralità dei diritti costituzionali, in cambio di più sicurezza? Per lui, la risposta è un netto sì». [9]
Non potendo aprire ogni singolo container e perquisire ogni persona che attraversa i confini americani, le agenzie di sicurezza si devono affidare all’intelligence. Elena Molinari: «Il programma segreto di intercettazioni telefoniche ed elettroniche autorizzato dalla Casa Bianca cinque anni fa è nel bel mezzo di una bufera legale che ne mette in dubbio la costituzionalità. Gli sforzi dell’Fbi di infiltrare presunte cellule terroristiche sono spesso definiti discriminatori e illegali dalle comunità musulmane». [10] Il filosofo Michael Walzer (di sinistra ma non pacifista): «Negli Stati Uniti non c’è ancora stato un altro attacco. Sembrerebbe dunque un successo. Ma la maggior parte del lavoro di prevenzione è stato fatto dalle polizie europee. E ci sono stati attentati in Europa. Quindi non penso che abbiamo fatto grandi progressi». [11]
«Un altro 11 settembre? Potrebbe succedere anche domani». Sono parole di Michael Wermuth, direttore della sicurezza nazionale della Rand corporation (think tank di Washington), stupito che gli Stati Uniti, con i loro 5mila aeroporti, 230mila chilometri di ferrovia, 100 impianti nucleari e 6mila centrali elettriche, non siano stati più colpiti da quella mattina di cinque anni fa: «Non possiamo essere dappertutto, dobbiamo fidarci degli occhi e delle orecchie dei nostri concittadini». Molinari: «Che si guardi dall’alto di un aereo, di una collina o di un ponte, la striscia di terra che va dall’aeroporto di Newark al porto di Elizabeth è inconfondibile. In mezzo ai boschi del New Jersey si ergono enormi paranchi per navi. Torri di controllo. Montagne di container. Intricate condutture di metallo di impianti chimici. Labirinti di strada ferrata. Sono solo due miglia, poco più di tre chilometri. Le due miglia più pericolose d’America». [11]
«Il pensiero di una bomba nei pressi di Elizabeth ci tiene svegli di notte», va dicendo Richard Canas, direttore della Sicurezza nazionale per il New Jersey. Molinari: «Fra Newark ed Elizabeth, Canas conta 100 possibili obiettivi per un attentato. A una ventina di chilometri da Manhattan c’è un aeroporto internazionale che assorbe buona parte del traffico diretto a New York. Il terzo porto marittimo americano. Una decina di raffinerie. E una manciata di impianti per la produzione di cloro, il cui scoppio, secondo le proiezioni delle autorità Usa, potrebbe scatenare una serie di esplosioni a catena e liberare gas letali in grado di uccidere fino a 12 milioni di persone». Wermuth: «Siamo infinitamente vulnerabili». [11]