Il Sole 24 Ore 03/09/2006, pag.39 Ada Masoero, 3 settembre 2006
Quando Fontana faceva l’"imbianchino". Il Sole 24 Ore 3 settembre 2006. Pensando alla produzione sterminata del maestro (e ai valori delle sue opere) si potrebbe immaginare che la Fondazione Lucio Fontana sia una potente macchina organizzativa: nulla di tutto ciò
Quando Fontana faceva l’"imbianchino". Il Sole 24 Ore 3 settembre 2006. Pensando alla produzione sterminata del maestro (e ai valori delle sue opere) si potrebbe immaginare che la Fondazione Lucio Fontana sia una potente macchina organizzativa: nulla di tutto ciò. A farla marciare, in tre stanze candide e colme di libri che si affacciano sullo stesso cortile di corso Monforte in cui lui aveva lo studio, sono due sole indomite signore, Nini Laurini e Valeria Ernesti, che dell’artista e della moglie Teresita sono state amiche strette e che dell’opera di Fontana conoscono ogni segreto. Due vere "vestali" del maestro, capaci di riconoscerne al primo colpo d’occhio il minimo segno - salvo poi studiarlo nei dettagli -. Chi scrive le ha viste all’opera su un superbo taglio bianco portato da un collezionista: uno sguardo attento al dipinto, un esame del retro, un’occhiata d’intesa fra loro ed era sì. Un sì poi confermato, naturalmente, dai successivi controlli e dall’esame ulteriore di Crispolti. Nini Laurini, presidente della Fondazione e moglie di uno dei migliori amici dell’artista, a raccontarci com’era l’uomo Fontana, rammentandone la grande simpatia, accentuata dalla lingua improbabile in cui si esprimeva: un mix bislacco di milanese, francese e spagnolo, frutto questo della nascita in Argentina, figlio di uno scultore lombardo che là aveva conosciuto una certa fortuna. Ma una volta arrivato a Milano, Fontana conobbe tempi duri e fu Teresita, che a 17 anni aveva conosciuto quel "bellissimo giovane" quando era una "piscinina" (apprendista in una modisteria), ad aiutarlo a lungo con il suo negozio di modista. Quanto a lui, gran "charmeur", era molto sensibile al fascino femminile. Ricorda Nini Laurini: "Teresita era gelosissima ma gli era devota fino alla venerazione. Lui non voleva specchi a figura intera nella loro casa di via Porpora e lei veniva a specchiarsi a casa mia. Continuò a farlo anche dopo la sua morte e quando le chiesi perché non ne comprasse uno, lei mi rispose che non voleva dispiacergli. Anche lui del resto le era profondamente legato e sono molte le opere dietro alle quali, come usava fare, scriveva affettuose frasi di dedica a Teresita" (nel catalogo sono riportate tutte le frasi che Fontana scrisse al verso delle sue opere; frasi semplici, colloquiali, spesso giocose: "Che barba con il Pop Art", "Che bella giornata oggi, vien voglia di fare all’amore", "Non rompetemi le scatole, sono stanco!"). Nini Laurini ne ricorda la grande apertura agli altri, la totale assenza di boria e soprattutto la grande disponibilità verso i giovani artisti: "Non che non fosse consapevole del suo valore, anzi: era assolutamente sicuro della sua arte; sapeva che prima o poi sarebbe stata riconosciuta. Ma questo non gli impediva di comportarsi con grande umiltà. E anche quando negli anni 60 raggiunse finalmente il successo di critica e di mercato, continuò a fare scambi alla pari con artisti alle prime armi. A chi lo avvertiva che quelli avrebbero subito rivenduto i suoi lavori, lui rispondeva sorridendo che potevano farne ciò che volevano. Aveva preso sotto la sua ala Piero Manzoni, che viveva allora una vita un po’ scapestrata, e gli faceva da maestro e da padre. Ma non era solo Manzoni a considerarlo un maestro: guardavano a lui con la stessa venerazione Yves Klein (con la moglie pittrice Rotraut, che lui chiamava Trotrò) e tutti gli artisti tedeschi del Gruppo Zero. Eppure Lucio non saliva mai in cattedra, anzi: amava molto confrontarsi con i giovani e spesso partiva per altre città, per visitare la mostra di qualche esordiente che lo incuriosiva". Flemmatico, non si faceva scalfire nemmeno dalle stroncature più feroci, "al contrario di Teresita, che invece si infuriava - continua Nini Laurini -. Lui diceva "parlino pure male di me, purché ne parlino". E a lei che insisteva perché modificasse il progetto per la Quinta porta del Duomo di Milano, bocciato dalle gerarchie ecclesiastiche, ribatteva che non si sarebbe mai piegato al volere altrui solo per passare alla storia. Fontana del resto ha sempre fatto solo ciò che ha voluto, senza seguire alcuna ragione d’interesse. Era un uomo di ricerca, così per mantenersi ("perchéavevo bisogno della pagnotta" diceva) lavorava alla ceramica e collaborava con gli architetti; tutti grandissimi del resto: Bbpr, Zanuso, Baldessari...". Ma c’è un aneddoto che ci racconta la nostra interlocutrice e che dice forse più di ogni altro quanto Fontana fosse insieme umile e orgoglioso del proprio lavoro: "Un’amica collezionista aveva acquistato una delle sue grandi lamiere (quei suoi magnifici Buchi su rame) per metterla capoletto. Lui andò a casa sua e stese di persona su un muro il campione dell’arancione con cui volle che si dipingessero pareti e soffitto. Non solo, ma scelse personalmente moquette e coperta, dell’identico color arancio del rame. Era perfezionista e sebbene fosse ormai famoso nel mondo, per valorizzare il suo lavoro non esitava a fare anche l’"imbianchino"". Ada Masoero