Corriere della Sera, Lauretta Colonnelli, 4 settembre 2006
Quella volta che Naghib Mahfuz mi portò a bere un caffé da Ali-Baba e mi spiegò perché preferiva la letteratura alla filosofia
Quella volta che Naghib Mahfuz mi portò a bere un caffé da Ali-Baba e mi spiegò perché preferiva la letteratura alla filosofia. Wimbledon, settembre 1990. Il Cairo. «Dov’è mia moglie? E lei chi è?». È entrato nell’ingresso buio, ha acceso automaticamente la luce e l’ha rispenta subito, quando si è accorto che c’era una estranea seduta nel salotto di casa sua. rimasto per qualche secondo a spiarmi, protetto dall’oscurità, il cappello grigio in testa, il fascio dei giornali sotto il braccio. Cercando di non farsi vedere, guadagna la porta del suo studio. Riappare dopo un attimo. «Dov’è mia moglie?». « andata a cambiarsi. Io sono una giornalista italiana». Si siede sul divano di fronte al mio. talmente allibito, che dimentica persino di togliersi il cappello. E continua a tenere stretto sotto il braccio il fascio dei giornali. Nessuno, prima d’ora, aveva violato l’intimità della sua casa. Anche se da quando ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura, due anni fa, Naghib Mahfuz è assediato dai giornalisti di tutto il mondo. Un cronista americano ha scritto: «Adesso si va in Egitto per vedere la Sfinge, le Piramidi e Mahfuz»; ma lui si concede solo per pochi minuti. E soltanto nel suo ufficio, al sesto piano del palazzo che ospita la redazione AlAhram, il quotidiano presso il quale continua a lavorare anche dopo la pensione. Anche stavolta l’appuntamento era fissato là. Per un’intervista collettiva con una trentina di giornalisti italiani, guidati dall’editore napoletano Tullio Pironti, che ha appena pubblicato il suo Il tempo dell’amore e sta finendo di tradurre la Trilogia, di cui è uscito nei mesi scorsi il primo volume, intitolato Tra i due palazzi. Quattro giorni in un albergo del Cairo, a spese dell’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Napoli, che sponsorizzava l’iniziativa, ad aspettare un incontro di appena un quarto d’ora. «Potete fare soltanto sei domande, non una di più», aveva avvertito la professoressa Clelia Sarnelli Cerqua, che sta traducendo la Trilogia, ma che non aveva ancora avuto la soddisfazione di vedere il celebre autore. Non mi interessava. Ero curiosa di sapere come vive quest’uomo di quasi ottant’anni, che le foto presentano sorridente dietro un paio di lenti scure. Di scoprire cosa pensa. Di conoscere la storia che l’ha portato alla scrittura. Non è stato facile ma neppure impossibile. Questo è il resoconto dell’incontro: due giorni con Naghib Mahfuz. La prima difficoltà è stata trovare l’indirizzo. Gli amici proteggono la riservatezza di Mahfuz con una cortina di silenzio. Alla fine, un collega del Cairo mi ha indicato una via e un numero civico. Sbagliato. Ma ho trovato un tassista testardo: «Mahfuz è una gloria per tutti noi. Sarebbe un disonore non riuscire a trovare il luogo dove abita», ha dichiarato. Abbiamo cominciato a chiedere ai vigili, ai venditori ambulanti, ai portieri dei palazzi. C’è di bello che il Cairo, con i suoi quindici milioni di abitanti, è rimasto un grande villaggio. Tutti conoscono tutti. Dopo due ore di avvicinamenti a tappe abbiamo rintracciato la casa di Mahfuz. Un appartamento al piano terra di un palazzo a Shari El Nil, il lungonilo. L’androne è scuro, con una brandina per la siesta del portiere e ciotole con avanzi di cibo per i gatti, disposte lungo le pareti. C’è una sola porta, al pianterreno, con una grata come quelle dei conventi di clausura. Suono il campanello parecchie volte prima che lo sportellino della grata si apra dall’interno. Intravedo una figura. Una voce di donna chiede cosa voglio. Poi si apre uno spiraglio e appare una signora di mezza età, con i capelli scuri legati dietro la nuca e una vestaglia rosa sopra la camicia da notte. «Sono la moglie di Naghib Mahfuz. Mio marito non c’è. No, non parliamo con nessuno. Non ci piace stare sotto le luci dei riflettori». Le trattative sono lunghe, complicate dall’arrivo di un gatto bianco e nero che cerca anche lui di insinuarsi nell’appartamento. La signora, alla fine, è vinta dalla sua stessa gentilezza. «Entri», mi invita, «ma solo per pochi minuti». Dietro di lei, sopra una consolle, campeggia un grande quadro che ritrae lo scrittore con la testa che spunta da un fiore, i cui petali sono pagine di libri. Ricorda certi ritratti di Tutankamen conservati al museo archeologico del Cairo, nei quali la testa del faraone emerge dal fiore di loto, simbolo di rinascita e quindi di eternità. «Questo», dice la signora Mahfuz, «ci è stato regalato da un pittore di un villaggio dell’interno, quando mio marito ha vinto il Nobel». Il salotto è immerso in una luce lattiginosa che filtra da balconi chiusi da una triplice cortina di vetri, piante e tendine bianche. Dentro, un profluvio di tappeti, cuscini e tovagliette ricamate, porte a specchio, arazzi, mobili intarsiati, cineserie, lampadari a goccia. I Mahfuz ci abitano dal 1954, quando si sono sposati. Atiat Allah manda avanti la casa da sola. Il marito esce alle sei ogni mattina. Lei si alza tardi, riordina, cura le piante. Alle undici lui rientra. Lei gli prepara un pasto leggero. «Da quando gli hanno scoperto il diabete può mangiare solo cibi dietetici. Abbiamo dovuto cambiare anche le nostre abitudini di vita. Prima andavamo spesso al cinema. Ci piacevano in particolar modo i film di Totò. Adesso Naghib ha problemi con la vista e l’udito. Anche a leggere e a scrivere si stanca facilmente. Ormai compone solo racconti brevi. Scrive a mano, senza correzioni, e consegna direttamente i fogli in tipografia, senza batterli a macchina». Sulla parete di fondo, una libreria raccoglie i volumi dell’Enciclopedia britannica e le opere di Mahfuz in edizione straniera. Ci sono anche quindici copie del suo Tra i due palazzi pubblicato da Pironti. I libri in arabo li tiene invece nello studio, dietro la scrivania. Non ci sono molti volumi. Le altre librerie dello studio sono occupate dai servizi buoni di casa: piatti, bicchieri, posate, in bella mostra dietro le vetrine. Un divano con un plaid molto usato. «Per il riposo del pomeriggio». Un radioregistratore «per ascoltare i nastri con le canzoni di Beniamino Gigli e Luciano Tajoli». Un grande televisore in un angolo «per guardare le partite di calcio», confida ancora la moglie. «Durante l’ultima Coppa del mondo, Naghib rinunciò persino a vedersi la serie a puntate del suo Il tempo dell’amore pur di seguire le partite. Si lascia assorbire dal gioco al punto tale che urla dall’eccitazione e si alza acclamando ogni volta che fanno goal». Da giovane giocava anche lui come attaccante, nella squadra del suo quartiere, Al Abbasiyya. Nuotava ed era bravo nella corsa. Col tempo ha abbandonato lo sport, ma ha mantenuto l’abitudine della camminata mattutina: due ore da casa fino al caffè Ali Baba in piazza Tahrir. Naghib Mahfuz mi invita per la mattina seguente ad accompagnarlo nel solito percorso. «Così possiamo continuare la chiacchierata», dice. Il ghiaccio si è rotto. Atiat Allah è riapparsa con un bel vestito blu a piccoli disegni bianchi e si è avvolta un foulard intorno ai capelli. Insiste per offrirmi un vassoio di kaak, piccoli dolci ripieni di frutta secca, che ha preparato lei stessa per la fine del Ramadan. «Per Naghib la casa è il luogo della quiete», si scusa. I problemi devono rimanere fuori. E purtroppo anche gli amici. Qui, esige silenzio assoluto. Non sopporta nessun tipo di voce, soprattutto quando scrive. Quando le bambine erano piccole lui restava in casa solo nel tempo che loro erano a scuola. «Le figlie oggi hanno 34 e 32 anni. Si chiamano Hoda, che in arabo significa ”quiete” e Fatin». In realtà, Mahfuz le adora. Da quando hanno iniziato a lavorare e sono costrette a rimanere al Cairo anche d’estate, lui si sottomette a una spola faticosa tra il Cairo e Alessandria. Una settimana qua e una là. «Non riesco a stare lontano da loro troppo a lungo», confessa. Anche se odia viaggiare. Non è andato neppure a ritirare il Nobel. Al suo posto ha mandato appunto Hoda e Fatin. Solo due volte è uscito dall’Egitto: una per recarsi nello Yemen; l’altra in Yugoslavia. «Mi avevano parlato tanto del fascino di Dubrovnik, ma io preferisco Alessandria. La bellezza di questa città è senza pari. Fino all’inizio degli anni ”70 alloggiavamo in un pensionato. Poi un giorno, quando ancora lavoravo al Ministero della Cultura, venne a cercarmi un uomo che arrivava da Alessandria e che mi raccontò di un appartamento che aveva costruito sulla terrazza di casa sua e che voleva affittare per sempre. Quest’uomo aveva due figlie ed era venuto a cercare me perché sapeva che anch’io avevo due femmine. Era terrorizzato all’idea di dover affittare l’appartamento a una famiglia che avesse dei figli maschi. Partii immediatamente per vederlo. Era piccolo, con due camere e un salottino lungo e stretto. Firmai il contratto per trenta ghinee. Oggi me ne costerebbe più di cinquecento». felice soprattutto perché questa casa gli ricorda quella che abitava da bambino nel quartiere di alGamaliyya, il più vecchio del Cairo. «Era una casa verticale: al primo piano il salotto, al secondo la camera da pranzo, all’ultimo il terrazzo con i vasi di edera e basilico e le gabbie di anatre, polli e pulcini. Sul terrazzo, c’era anche una stanza in cui dormivamo d’estate nei giorni di calura. Questa stanza aveva una finestra che dava sulla piazza: da questa finestra ho assistito alla rivoluzione del 1919. Ricordo la piazza gremita da migliaia di persone e il fiume di parole nuove che arrivavano fino alle mie orecchie: la mezza luna e la croce, la patria e la morte violenta, il sultano e Malta. Le bandiere che sventolavano sopra le botteghe. L’iman che compariva sulla terrazza del minareto chiamando a gran voce e predicando. Le guardie britanniche a cavallo e il sibilo delle pallottole. L’assalto alla stazione di polizia che era proprio davanti a casa mia. Dicevo a me stesso che ciò che accadeva era un sogno eccitante, da non credere. Finché mia madre non veniva a tirarmi via dai vetri. Dentro casa il mondo era tranquillo. Mio padre, impiegato, parlava della patria e della casa, come se fossero una cosa sola. Mia madre riceveva le donne che venivano a preparare amuleti per le pratiche magiche. Stavo con loro a sentirle chiacchierare. Ero l’ultimo di sette fratelli, ma era come se fossi figlio unico. C’erano quindici anni di differenza tra me e mio fratello più piccolo. Il mio rapporto con loro, era quello di un bambino verso i grandi, fondato sull’educazione e sulla timidezza. Non li conoscevo come fratelli con cui giocare e scherzare. Tra i miei amici c’erano tre fratelli che stavano sempre insieme. Io li seguivo e pensavo: ”Avrei potuto essere come loro”. Sono stato privato del sentimento della fratellanza. Perciò, da grande, l’ho sempre cercata e coltivata negli amici e l’ho descritta nelle mie opere». Gli amici più cari di Mahfuz sono rimasti quelli di al-Abbasiyya, il quartiere nuovo, dove si trasferì a dodici anni con la famiglia. «Qui le case erano ad un solo piano, circondate da giardini. Ma il mio cuore era rimasto nei vicoli di al-Gamaliyya. Il vicolo, a quel tempo, era uno strano mondo, dove erano rappresentate tutte le classi del popolo egiziano. Accanto alla nostra c’erano le case di ricchi commercianti e di personalità importanti. Ma c’era anche la casupola dove abitava una donna molto povera col marito cieco, che sopravviveva vendendo ravanelli. Durante il Ramadan si mescolavano tutti. I ricchi aprivano i salotti ai poveri. Chiunque, anche un forestiero, poteva entrare e mangiare. Ho visto sparire questo mondo negli anni Trenta». qui che Mahfuz si ispira per la figura del sayyed Alimad, il padre-padrone protagonista della sua Trilogia. «Ricordo che c’era una famiglia che abitava di fronte a noi. La casa era perennemente chiusa. Le finestre non si aprivano mai. Non ne usciva che il proprietario, un siriano chiamato Sayh Ridwan, dall’aspetto terribile. Accompagnavo mia madre a visitare la moglie di quell’uomo, ma lei non veniva mai a trovarci perché suo marito non le permetteva di uscire». Qui nascono tutte le storie raccontate da Mahfuz nei suoi romanzi e novelle, in cui i vicoli sono protagonisti: quelli realmente esistiti e quelli trasfigurati dal ricordo e inventati dalla fantasia. «Quando passo per al-Gamaliyya, mi si affollano intorno le visioni fantastiche come disegni animati. Negli ultimi tempi ho smesso di andarci. La mia età avanzata, il traffico, la malattia agli occhi non me lo permettono più. E questo mi affligge molto. Quando sostavo in quella zona, mentre fumavo il narghilè, mi fluivano nella mente i racconti che poi ho scritto. Credo che il rapporto con un determinato luogo sia indispensabile per uno scrittore. il punto di partenza per sentimenti e sensazioni». I vicoli e i caffè. «Cominciai a frequentare i caffè di al-Gamaliyya con un amico di al-Abbasiyya, durante le vacanze scolastiche. Questo amico era uno sconsiderato, un avventuriero. Lavorava con suo padre, ma quando sopraggiunse la crisi degli anni Trenta abbandonò suo padre e sparì. Quando ricomparve si era fatto crescere la barba e disse che veniva dalla Medina. Si spacciava per guaritore e vendeva della normale polvere del deserto come polvere miracolosa proveniente dalla tomba del Profeta. Una volta provocò una emorragia durante l’estrazione di un molare e scappò di nuovo. Ma ogni volta che passava dal Cairo mi veniva a trovare. Non so dove sia ora. Forse è passato nella misericordia di Dio. Fu lui a introdurmi all’antico caffè Urabi, dove nacque il mio romanzo Il caffè degli intrighi (pubblicato in Italia da Ripostes, n.d.r.). Un giorno vidi arrivare al caffè un uomo dalla carnagione chiara, con occhi strani e dita appuntite come artigli di un uccello. Fece preparare il narghilè e si sedette davanti alla scacchiera. Intorno s’era creato un silenzio greve. Non lo vidi più per una settimana. Poi lessi sui giornali che era morto in un incidente d’auto sulla statale per Alessandria. Seppi che era il feroce direttore del carcere militare, arrestato dopo la rivoluzione del 1967. Il pomeriggio che lo vidi al caffè, era quello del suo primo giorno di libertà». Il caffè Urabi era un punto fisso nell’esistenza di Mahfuz. Anche dopo il matrimonio, lo scrittore vi arrivava ogni giovedì, verso le sei di sera, dopo aver trascorso la giornata con sua madre. «Il proprietario del caffè», racconta, «era uno dei più famosi teppisti della città. Aveva raggiunto un tale potere che un giorno il comandante della sezione di polizia di Zahir, ricorse a lui per chiedergli protezione. Un’altra volta invece, fu messo in prigione perché aveva picchiato un conestabile inglese e poi lo aveva spogliato completamente e gli aveva portato via i vestiti, lasciandolo per strada così come l’aveva fatto sua madre». Per molti anni della sua vita, Naghib Mahfuz ha frequentato due riunioni fisse settimanali: una il giovedì sera all’Urabi, l’altra il venerdì sera al caffè Rais. Chi l’ha conosciuto bene, assicura che alle due riunioni si presentavano due Mahfuz completamente diversi. A quella del venerdì, dove si parlava di politica, compariva un Mahfuz tutto impegnato a cercare la quiete e il modo di farsi passare il mal di testa. Leggeva la pagina dei necrologi sui quotidiani, metteva un segno sui nomi dei defunti che conosceva e poi scriveva telegrammi di condoglianze al parenti. A quella della sera precedente, all’Urabi, risuonavano invece le sue grandi risate. Alle otto precise se ne andava. «Avevo appuntamento con gli Harafis», racconta. «Gli Harafis erano una specie di associazione il cui motto era ”Arte e Scherzo”. L’avevamo fondata nel ”42. Eravamo un gruppo di amici scrittori, registi, pittori. Per trent’anni ci siamo riuniti a casa di uno di loro. Uscivo dall’Urabi, acquistavo dal venditore di kabab un chilo di carne arrosto e li raggiungevo. Trascorrevamo la serata, fino a notte alta, ridendo fino a farci dolere le costole. Avvenivano delle vere e proprie gare di burla. Spesso ero io a vincere. Certi amici mi chiamavano ”figlio della facezia”, per questa mia capacità». Negli anni Settanta, le riunioni si diradano fino a scomparire. «Molti amici sono morti, io sono invecchiato», si scusa Mahfuz con il suo grande sorriso che gli illummina il viso dalla pelle scura. Ha cambiato caffè. Da quindici anni frequenta l’Ali Baba, ma solo per bere il primo caffè della mattina, alle otto. Mi invita ad accompagnarlo per il giorno seguente. Alle sei mi aspetta puntuale davanti al portone di casa. Il sole è appena spuntato da dietro i palazzi sull’altra riva del Nilo. l’unico momento di pace, al Cairo. Quando il traffico frenetico del giorno non è ancora subentrato a quello convulso della notte. Qualche rara automobile. Ancora più rari passanti. Mahfuz esce con il vestito elegante, la ventiquattrore in mano. Si ferma un attimo per comprare i quotidiani dalla giornalaia che non li ha ancora scaricati dal furgone. Costeggia il Nilo fino al ponte di El-Galà, lo attraversa e torna indietro lungo la sponda dell’isola di El-Zamalik, percorre il grande viale alberato che taglia l’isola e infine approda alla piazza del caffè Ali-Baba, dall’altra parte del Nilo, attraverso il ponte di El-Tahrir. Tre o quattro chilometri, che Naghib Mahfuz divora col suo passo veloce, rivelando una resistenza che non si direbbe vedendo il suo corpo gracile. Dicono che è possibile rimettere gli orologi al suo passaggio, tanto è puntuale ogni giorno. Mi viene in mente la passeggiata quotidiana di Immanuel Kant, il filosofo. Anche gli abitanti di Konisberg sintonizzavano gli orologi al suo passaggio. Lo sa Mahfuz? Certo che lo sa. Si è laureato in filosofia nel 1934. «Il conflitto tra letteratura e filosofia non mi ha mai abbandonato», racconta. «Il mio primo amore fu per la letteratura. Avevo circa dieci anni e frequentavo la quinta elementare, quando un compagno mi prestò un libro intitolato Il figlio di Johnson. Era un racconto poliziesco. Mi piacque e ne lessi altri della stessa serie. Poi mi sono chiesto: se questo è il figlio di Johnson, dove è finito Johnson in persona? Mi misi a cercarlo e trovai un’altra serie di racconti il cui protagonista era il padre. Mi identificavo completamente nei personaggi mentre leggevo, piangevo o ridevo a seconda delle situazioni. Poi cominciai a comporre. All’inizio leggevo un racconto e poi lo riscrivevo, con gli stessi personaggi, ma cambiando qualche avvenimento. Ci aggiungevo episodi tratti dalla mia vita quotidiana, dalle mie liti con gli amici. Poi scrivevo sulla copertina del quaderno il mio nome e, sotto, il nome di un editore immaginario. Nel frattempo andavo avanti con le mie letture e arrivai ai pensatori arabi. A questo pnto cominciai a considerare la letteratura un’occupazione marginale rispetto alla filosofia. Decisi di divenire filosofo. Mio padre, che mi voleva ingegnere o medico, si seccò moltissimo. Ma non riuscì a farmi cambiare idea. Volevo conoscere il segreto dell’esistenza e il destino dell’uomo ed ero convinto che solo la filosofia avrebbe risposto alle mie domande. Così studiai filosofia. Ma continuavo a occuparmi di letteratura, tanto per distrarmi. Ogni settimana facevo il giro delle librerie del centro del Cairo. Comprai tutti i libri di fama mondiale che riuscii a trovare in inglese. Lessi Guerra e Pace di Tolstoj, Delitto e Castigo di Dostoevskji e poi Cechov e Maupassant, Kafka e Proust, Shakespeare e Joyce, Faulkner e Conrad. Fino a che la cosa divenne grave come una malattia. Mi ero di nuovo innamorato della letteratura. Preparavo la tesi in filosofia e caddi preda di un conflitto violento. Ogni notte mi chiedevo: ”filosofia o letteratura?”. Durò fino al 1936. Rivolsi il dubbio tormentoso a favore della letteratura e allora avvertii finalmente una quiete profonda». Siamo arrivati al caffè Ali-Baba. Abdallah, il vecchio cameriere, aspetta Mahfuz con la tazzina di caffè nero e fumante già pronta in mano. Il locale è piccolo: due stanzette trasandate una sull’altra, affacciate sulla grande piazza di El-Tahrir. Mahfuz si siede accanto alla finestra. Davanti a lui, il marciapiede si è rianimato: il venditore di falafel frigge le sue crocchette di fave sotto la tettoia. Più in là c’è il chiosco del giornalaio, il banchetto del lustrascarpe e quello del venditore d’acqua. Un fiume di passanti scorre sotto il naso di Mahfuz mentre si accende la prima sigaretta della giornata. «Il valore dell’artista», dice, «si misura dal rapporto che lui ha con la realtà, con la gente. L’artista deve essere istintivo come gli animali. Come i passeri, gli elefanti, le aquile, che quando avvertono il pericolo lo annunciano con versi particolari ai loro simili. L’artista può considerarsi tale solo quando percepisce istintivamente la realtà e riesce a esprimerla. Quando ho cominciato a scrivere, ero molto incerto su che cosa scrivere. A quel tempo in Egitto divampava il nazionalismo e si auspicava il ritorno degli splendori faraonici. Decisi di dedicare la mia vita a riscrivere la storia egiziana come se fosse un romanzo. Ma questo proposito cessò quando finii il racconto La battaglia di Tebe. Eppure avevo passato anni a studiare la vita quotidiana, i mezzi militari e la religione al tempo dei faraoni. Uno sforzo buttato al vento. Adesso la storia non poteva più darmi ciò che cercavo. Volevo addentrarmi direttamente nell’esame delle questioni sociali. Per scrivere di questo, scelsi lo stile realista, anche se a quel tempo il realismo veniva duramente attaccato in letteratura. Sapevo che era un metodo sorpassato. Che adesso gli autori ripiegavano verso l’intimo, verso i flussi di coscienza e dell’inconscio. Ma come potevo io immergermi in una realtà che non era mai stata descritta? Nessuno aveva mai parlato della gente di al-Kalili, della città vecchia, che viveva e soffriva e frequentava i caffè. L’introspezione appariva logica con l’eroe di Joyce, non con l’umanità che io volevo raccontare». Una scelta ragionata, dunque, non una ingenua scrittura da telenovelas, come hanno mugugnato i suoi detrattori, quando gli è stato assegnato il Nobel? Arriva l’autista che lo accompagna alla redazione di Al-Ahram, come ogni giovedì mattina. Ci salutiamo. Due ore dopo ci incontriamo di nuovo nel suo ufficio al sesto piano del palazzo dell’Al-Ahram. Arrivo con gli altri giornalisti. Mahfuz appare inavvicinabile. Una schiera di guardiani, segretari e assistenti protegge il suo isolamento. di nuovo un monumento nazionale. «Un quarto d’ora, non di più», ripetono i suoi custodi. I giornalisti vengono presentati ad uno ad uno in maniera molto ufficiale. il mio turno. Naghib Mahfuz, «il figlio della burla», mi guarda e scoppia a ridere come un matto. Lauretta Colonnelli