Libero 02/09/2006, pag.1-33 Michele Brambilla, 2 settembre 2006
Quando il Ddt salvò la Sardegna (anche dal Pci). Libero 2 settembre 2006. Anche quest’anno milioni di italiani hanno scelto la Sardegna come meta delle loro vacanze
Quando il Ddt salvò la Sardegna (anche dal Pci). Libero 2 settembre 2006. Anche quest’anno milioni di italiani hanno scelto la Sardegna come meta delle loro vacanze. Un’indagine dell’assessorato sardo al turismo ci fornisce un dato perfino scontato: la stragrande maggioranza dei villeggianti intervistati ha detto di essere attratta soprattutto dal mare e dalle coste. Risposta scontata, appunto. Eppure credo che pochi sappiano che proprio le coste sono state, fino a non più di sessant’anni fa, il punto debole dell’isola, anzi la sua condanna. Per secoli, e fin dall’antichità, la Sardegna ha goduto della pessima fama di ”isola pestilenziale”, e per questo è stata accuratamente evitata da tutti. Pochi sanno, soprattutto, che la Sardegna deve la sua fortuna attuale a un prodotto che è una bestia nera di tutti gli ambientalisti: il Ddt. Sì, proprio il dicloro-difenil-tricoloroetano che ammazza gli insetti ma che fu, fin dal principio, sospettatissimo di produrre danni all’uomo e alla natura. La storia che andiamo a raccontare - più che altro per curiosità, essendo appunto sconosciuta ai più - è in sintesi questa: la Sardegna era resa invivibile dalla malaria, soprattutto nelle zone costiere, e non si trovava soluzione a un tale flagello; fino a quando, nel 1946, gli americani chiesero di sperimentare il neonato Ddt proprio in Sardegna. La proposta non passò via liscia - il Pci, come vedremo, si oppose parlando addirittura di operazione fascista - ma alla fine passò. E fu la salvezza dell’isola. O meglio, la rinascita. Il sogno di oggi era un incubo Prima di entrare nei dettagli, butto lì un altro dato che forse ai turisti passa inosservato: nella cucina sarda il pesce non c’è. C’è la carne, c’è la pasta, ci sono i formaggi. Ma il pesce non c’è. O meglio: qualche volta c’è, ma non fa parte della tradizione della cucina locale. E il motivo è presto detto: i sardi non pescavano perché avvicinarsi al mare voleva dire imbattersi in ambienti - le coste - più che malsani; voleva dire contrarre la malaria. Insomma: il paradiso degli italiani è stato per secoli il luogo più invivibile d’Italia. Molti la chiamavano "l’isola della morte". Pensate: alla fine dell’Ottocento la popolazione della Sardegna non arrivava a 800.000 abitanti; quella della Sicilia, la cui superficie è di poco superiore, era di quattro milioni. La malaria era un nemico terribile soprattutto perché non se ne conosceva l’origine. Per secoli si è attribuita la causa ai miasmi delle zone paludose. "Malaria" deriva proprio da questa idea, "mal-aria", aria cattiva. Invece non è questo a provocare la malattia: la malaria è solo l’ambiente ideale per le vere responsabili, le zanzare del genere Anopheles. Ma questo lo si accertò solo nel 1898. E, una volta accertata la causa, la strada per trovare il rimedio era ancora lunga. Ovviamente, la malaria non c’era solo in Sardegna. Ma in Sardegna il problema era molto più drammatico che altrove. Anche perché i disboscamenti sciagurati del Settecento avevano privato le coste delle loro difese naturali: gli alberi trattengono le acque, e senza più alberi a valle finisce di tutto: acqua, detriti, schifezze di ogni genere. Un popolo segnato dalle febbri Così in quasi tutte le coste della Sardegna si erano formate pozze e acquitrini in cui le dannate Anopheles sguazzavano felici. Per dare un’idea della differenza dell’incidenza della malaria tra la Sardegna e le altre regioni italiane, basti qualche dato: nei primi anni del Novecento in Sardegna morivano di malaria 211,2 persone ogni centomila abitanti; in Basilicata (al secondo posto della tragica classifica) 183,7 ogni centomila abitanti; ma in Lombardia 4,8; in Piemonte 3,5; in Liguria 0,9. La Sardegna era colpita ovunque, anche all’interno dell’isola, perché chi si ammalava cercava scampo nell’entroterra. Un’inchiesta promossa dal governo Cairoli nel 1878 sullo stato delle ferrovie si concluse dichiarando immuni dalla malaria solo 26 dei 246 chilometri di strada ferrata in Sardegna. E ancora: alla fine dell’Ottocento i comuni con una popolazione superiore ai 10.000 abitanti erano solo cinque su 364: Cagliari, Iglesias, Sassari, Alghero, Tempio Pausania. Ed ecco i dati sui morti: dal 1887 al 1900 (in soli tredici anni!) in Sardegna morirono di malaria 27.986 persone, il dieci per cento della mortalità generale. Se però si calcolano le morti provocate dalle malattie collegate alla malaria - pneumoniti, gastroenteriti e coliti - si scopre che un terzo di chi moriva in Sardegna era, direttamente o indirettamente, vittima di quelle malefiche zanzare. Ma anche chi non moriva, dalla malaria restava segnato per sempre. Nel fisico e nel carattere. I malarici cronici erano un terzo esatto della popolazione, ed essere malarico cronico vuol dire convivere con febbre e debolezza perenne. Vuol dire sapere di avere davanti a sé una vita triste e breve. Eugenia Tognotti, una professoressa universitaria di Sassari che ha dedicato ampi studi alla questione, ha scritto che i sardi di pianura erano «piccoli, di costituzione debole, con voluminosi tumori di milza, afflitti da senilità precoce e segnati dalla malattia nella stessa identità fisica e antropologica». Quella dei sardi era, ha scritto la Tognotti, «una popolazione rassegnata, svigorita, inebetita dalle febbri». Le bonifiche del Duce Solo nei primi anni del Novecento si cominciò ad attrezzarsi con qualche rimedio più efficace. Il chinino, in particolare. Ma funzionò molto poco. Intanto era un prodotto che permetteva di curare (in parte) il malato, mentre invece ciò che serviva era un prodotto che andasse a colpire la causa della malattia, cioè le zanzare. E poi non si riuscì a somministrarlo a tutti, neppure quando si decise di distribuirlo gratis: la gente delle campagne conservava un’atavica diffidenza verso ciò che veniva dallo Stato e anche verso i medici. Il detto ”Lu sbagliu di lu duttòri lu carragghja la tarra” (l’errore del medico lo copre la terra) sopravvive ancora oggi nei proverbi popolari. Il fascismo diede il via a una serie di opere di bonifica che ottennero qualche risultato, ma restava il problema dell’eliminazione delle zanzare. Si provò gettando nelle acque calce e petrolio, ma le Anopheles resistevano . E poi la seconda guerra mondiale peggiorò ulteriormente la situazione. I pesantissimi bombardamenti (nel 1943 Cagliari fu distrutta, e anche i grandi centri costieri di Olbia, Alghero, La Maddalena e Bosa vennero duramente colpiti) fecero tornare indietro di anni la Sardegna dal punto di vista delle condizioni igieniche e sanitarie. L’intervento degli Alleati Fu nel dopoguerra che arrivò, finalmente, la svolta. E arrivò grazie all’International Health Division della Fondazione Rockefeller, che già dalla metà degli anni Trenta aveva aperto, a Porto Torres, una sezione della Stazione Sperimentale Antimalarica. La Fondazione Rockefeller chiese di poter sperimentare in Sardegna l’insetticida Ddt, scoperto nel 1939. Le perplessità non mancavano: le voci sui possibili effetti collaterali del Ddt giravano già allora. Ma alla fine il ”Sardinian project” partì, di concerto con un ente appositamente costituito, l’Erlaas, ente regionale per la lotta anti-anofelica in Sardegna, che divenne presto il primo datore di lavoro dell’isola, con 33.000 persone alle dipendenze. Il Pci schierato con la malaria I comunisti, come detto, si opposero duramente, coerenti con l’opposizione a tutto ciò che veniva dagli Stati Uniti. Così come il piano Marshall, anche la disinfestazione della Sardegna era vista come uno strumento dell’odiato imperialismo americano. Il 2 luglio 1947 l’Unità accusò l’Erlaas di essere «un’organizzazione neofascista con oscuri disegni». Ma grazie al cielo il Pci non aveva il potere di bloccare tutto. Tonnellate di Ddt vennero buttate lungo le coste, e anche le case furono disinfestate. Migliaia di uomini in tuta, casco e stivaloni di gomma spruzzarono il Ddt in ogni tipo di costruzione frequentata dall’uomo, compresi i nuraghi, i ponti, le caverne e i pozzi di miniera. Focolai di larve resistettero ancora per qualche tempo: ma la malaria era stata vinta. Non è dato di sapere con quali eventuali danni dovuti alle controindicazioni del Ddt. Ma da allora l’«isola della morte» ha cominciato a diventare il paradiso dei turisti, e il mare forse più bello del mondo. Michele Brambilla