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 2006  settembre 03 Domenica calendario

I peccati politici di gioventù e i troppi mea culpa. Corriere della Sera 3 settembre 2006. Fra poco il presidente della Repubblica si recherà a Budapest, nel cinquantenario dell’invasione sovietica che lui stesso aveva approvato a suo tempo, in parlamento, quale referente del Pci

I peccati politici di gioventù e i troppi mea culpa. Corriere della Sera 3 settembre 2006. Fra poco il presidente della Repubblica si recherà a Budapest, nel cinquantenario dell’invasione sovietica che lui stesso aveva approvato a suo tempo, in parlamento, quale referente del Pci. Ovviamente siamo tutti lieti, credo, che Napolitano si sia ravveduto nel tempo, così come ha mutato la sua, e del Pci, posizione antieuropeista, che illustrò, sempre a nome del Pci, in un altro discorso in parlamento. Siamo tutti lieti, lo ripeto, ma chi, come me, contesta l’opportunità della sua elezione alla massima carica dello Stato non contrasta il Napolitano attuale, ma il comunista che fu il quale, come tutti i comunisti, è arrivato con decenni di ritardo a riconoscere la strada giusta o, se vogliamo, la meno sbagliata: da un politico si chiede di prendere la giusta decisione al momento giusto, non un riconoscimento di colpa dopo quarant’anni. Tutti i dirigenti comunisti hanno peccato in questo senso, Napolitano compreso. Mario Simonelli Caro Simonelli, qualche mese fa, quando Giorgio Napolitano era ancora senatore a vita, partecipai alla presentazione delle sue Memorie, edite da Laterza, e sollevai il problema del giudizio che il Pci dette nel 1956 della rivoluzione ungherese. Non lo feci per metterlo in imbarazzo o rimproverargli implicitamente i suoi errori di gioventù. Lo feci perché volevo cercare di comprendere quali fossero allora la cultura del Pci, il rapporto gerarchico fra Botteghe Oscure e le sedi periferiche del partito (Napolitano era segretario della Federazione di Caserta) e la natura dei vincoli che legavano il Pc alla casa madre sovietica. La mia curiosità era soltanto storica e politica. I mea culpa non mi piacciono e non mi interessano. Per tre ragioni. In primo luogo sono diventati la liturgia giapponese della vita politica europea, la versione laica del beneficio delle indulgenze, una sorta di pellegrinaggio al Santuario della Verità, indispensabile per tutti coloro che vogliono mantenere il consenso di elettori e fedeli. Non mi piacquero le domande di perdono che Giovanni Paolo II fece nel corso della sua vita. E diffido delle confessioni in pubblico, spesso parziali o ambigue come quella di Günter Grass, con cui gli uomini fingono di pentirsi dei peccati di gioventù. Non mi piacciono, in secondo luogo perché sono tutte profondamente antistoriche. Condannare le Crociate senza tenere alcun conto del contesto in cui quelle imprese vennero realizzate, è un’operazione insensata. Condannare il colonialismo senza prendere in considerazione le motivazioni e la cultura di coloro che ne furono protagonisti mi sembra una manifestazione di arroganza dietro la quale si nasconde il concetto che noi, uomini moderni ed evoluti, siamo meglio dei nostri antenati. In terzo luogo, infine, tutta la storia politica è piena di uomini e donne che hanno cambiato opinioni. Vuole qualche esempio, tratto a caso dalla storia italiana? Alcide De Gasperi fu deputato del Trentino a Vienna e partecipò come leale suddito imperiale, durante la Grande guerra, ai lavori delle commissioni del Parlamento austro-ungarico. Se l’Austria avesse vinto, avrebbe fatto una brillante carriera politica nell’ambito dell’Impero, ma questo non gli impedì di essere uno dei migliori presidenti del Consiglio dello Stato italiano. Benito Mussolini fu il protagonista ateo di un memorabile dibattito in Svizzera sull’esistenza di Dio. Ma chiuse il contenzioso con la Chiesa Romana e firmò i Patti Lateranensi del febbraio 1929. Giovanni Gronchi fu sottosegretario nel primo governo Mussolini dopo la marcia su Roma, quando tutti sapevano che il fascismo era un «partito armato» e incline all’uso politico della violenza. Ma fece una onorata carriera nella Democrazia cristiana e divenne il secondo presidente della Repubblica italiana. Benedetto Croce votò la fiducia in Senato al governo Mussolini dopo il delitto Matteotti perché ritenne che una crisi ministeriale, in quel momento, avrebbe precipitato il Paese nel caos della guerra civile. Ma la sua persona e la sua rivista furono negli anni seguenti una scuola di liberalismo. Luigi Einaudi fu un buon liberale, un eccellente governatore della Banca d’Italia, un saggio ministro del Bilancio e un esemplare capo dello Stato. Ma aveva giurato fedeltà al regime, come professore universitario, e aveva scritto a Mussolini, negli anni Trenta, per pregarlo di non infierire contro le intemperanze politiche del figlio Giulio. Amintore Fanfani insegnò Economia corporativa all’Università cattolica quando il rettore Agostino Gemelli lodava l’intervento dell’Italia nella guerra di Spagna. Ma fu uno degli uomini politici più tenaci e inventivi della Prima Repubblica. Potrei continuare, caro Simonelli, con qualche cenno ai trascorsi giovanili di Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, ma finirei per ripetere lo stesso concetto. Ciò che un uomo politico ha detto e fatto in passato, se non si è macchiato di un reato, mi interessa fino a un certo punto. Ciò che veramente mi interessa è quello che dice e fa oggi. Sergio Romano