Corriere della Sera 01/09/2006, pag.24 Franco Foresta Martin, 1 settembre 2006
Anno 2099: fine del petrolio Un tesoro distrutto in tre secoli. Corriere della Sera 1 settembre 2006
Anno 2099: fine del petrolio Un tesoro distrutto in tre secoli. Corriere della Sera 1 settembre 2006. Nemmeno le più recenti e aggiornate analisi sulle riserve geologiche di petrolio sono valse a conciliare due tipi di valutazione incredibilmente divergenti. Per i ricercatori dell’United States Geological Survey (il servizio geologico dello Stato americano) il Pianeta dispone ancora di 320 miliardi di tonnellate di petrolio che, ai ritmi di consumo attuale, assicurerebbero energia per circa 80 anni. Più pessimistica la valutazione degli specialisti di alcune multinazionali, fra cui la BP, che scala di un buon 50% le «riserve provate», lasciandoci appena 160 miliardi di tonnellate di petrolio e 40 anni di tempo per ricorrere ad altre alternative energetiche. Per i pessimisti, inoltre, il cosiddetto «picco della capacità produttiva», cioè quel punto in cui la produzione, dopo avere raggiunto un massimo, comincerà a calare irreversibilmente a causa del progressivo esaurimento delle risorse, è dietro l’angolo: in qualche momento fra il 2020 e il 2030. Chiunque abbia ragione una cosa sembra ormai certa: il secolo da poco cominciato segnerà la fine dell’èra del petrolio. Alla luce di questi fatti è una magra consolazione sapere, come ci assicurano i geologi, che il ventre del nostro Pianeta, incurante dei drammi della crisi energetica prossima ventura, continua silenziosamente a partorire giacimenti di petrolio, come ha sempre fatto in passato. Ad alimentare l’invisibile fabbrica del petrolio e, più in generale, degli idrocarburi, sono per lo più i microscopici organismi planctonici (cioè galleggianti) che vivono negli oceani, come le alghe azzurre, le diatomee, i foraminiferi, i radiolari: alcuni di essi formati da semplici catene di cellule; altri da cellule ricoperte di eleganti gusci silicei o calcarei. Le alghe azzurre sono fra gli organismi viventi più antichi comparsi sulla faccia della Terra e di sicuro i primi vegetali dotati della funzione clorofilliana: quel meccanismo che permette alle cellule delle piante di sfruttare la luce del Sole per costruire il proprio nutrimento e svilupparsi. Dagli studi di paleontologia si è potuto stabilire che le minuscole alghe popolavano in abbondanza le acque, sia dolci sia salate, già 3 miliardi di anni fa, quando la formazione del nostro Pianeta era compiuta da un miliardo di anni. La caratteristica più straordinaria del lungo curriculum vitae delle alghe azzurre sta nel fatto che esse, fino a 500 milioni di anni fa, rimasero gli unici vegetali presenti sul Pianeta: solo dopo sono comparse le piante più evolute, come quelle che crescono sul terreno. Tuttora le alghe azzurre occupano gli ambienti acquatici con una grandissima varietà di specie e si riproducono molto facilmente. Basta mettere un dito d’acqua, raccolta da una pozza stagnante, in un barattolo di vetro pulito, chiudere con il coperchio, esporre alla luce discreta e aspettare. Nel giro di qualche settimana si vedranno formare dei grumi color verde azzurro: sono colonie di alghe che si riproducono senza problemi in questa specie elementare di ecosfera. Se si possiede un microscopio a forti ingrandimenti (qualche centinaio) si potranno apprezzare la loro forma filamentosa e, all’interno del filamento, addirittura le singole cellule messe in fila, una dopo l’altra, come le maglie di un braccialetto. Se è così facile fare riprodurre migliaia di alghe in poche gocce d’acqua e in poco tempo, immaginatevi di quale portata sia stata la produzione delle alghe azzurre e degli altri microrganismi planctonici vegetali e animali che hanno popolato le acque nel corso delle ère geologiche. I loro resti organici e inorganici si sono accumulati sul fondo degli oceani e dei laghi, formando depositi enormi, poi ricoperti da fanghi e altri sedimenti. Sottoposti a processi di decomposizione della materia organica, a pressioni elevate e al calore proveniente dal centro della Terra, molti di questi depositi si sono trasformati in un crogiolo chimico che ha generato miscugli pastosi di idrocarburi, poi differenziati in petroli liquidi e gas. In maniera analoga, sulla terraferma, gli spessi depositi di materia organica generati dalle antiche foreste, hanno dato luogo a un’altra categoria di combustibili fossili: i carboni. L’aspetto forse più tragico di questa avvincente storia è che la specie umana ha dissipato nel giro di tre secoli un patrimonio che la natura aveva costruito nell’arco di intere ère geologiche. E non ci conforta sapere che il processo continuerà e che i nostri posteri, fra milioni di anni, sempre che sarà ancora di qualche utilità, potranno tornare ad attingere alle risorse di idrocarburi e di combustibili fossili che si saranno nel frattempo riformate. Franco Foresta Martin